“La città non c’era”, uscendo dalla stazione, si dice di Matera in Cristo si è fermato a Eboli. Senza voler discutere adesso l’urgenza della frase pronunciata in quella pagina, a testimoniare lo sconforto, la disperazione innanzitutto degli occhi che si trovavano di fronte una realtà immobile, arida, desolata, posso dire però che io, di città, ne ho viste almeno tre e tutte straripanti di vita e di storia, di tempo che scorre pieno di vertigine, come accade sempre quando si fa qualcosa che ci prende e ci appassiona: un giorno e mezzo, due giornate appena, sono volate in questo cielo così concreto e immerso tra di noi, così terrestre. Ho visto tre città, dicevo. Ho intravisto, dovrei dire, considerata la brevissima durata del mio viaggio.
Una città l’ho osservata dall’alto, con due, tre piccole immersioni al suo interno, rapide come un secchio calato in un pozzo. Ma prima di scendere, tentato da più prospettive, il desiderio di restare in alto, di contemplare il panorama bianco, così diverso dalle pagine dei vecchi documenti, dalle vecchie foto. Dove ogni punto, ogni svolta nei vicoli intrecciati era infinita intersezione di rapporti, coesistenza d’uomini, groviglio di corpi e di leggende, di frasi e pianti e versi d’animali lì sdraiati intimamente e confidenze e amori e canti e feste e altri possibili conforti, altre occasioni di abbracci e di affratellamenti, forse proprio per la diffusa fatica di vivere, e luce e aria che mancano indistintamente, e pienezza di stenti e malattie spietate soprattutto coi bambini, uno slancio quindi a sopportare insieme le calamità, raccolti con le altre famiglie oltre il recinto negli spazi comuni, ora, dall’alto, solo un unico bianco per me, un bianco assiduo, limpido, un decoro, pochissimi, almeno in apparenza, i vecchi abitanti, a gruppi, invece, a folle composte, rallentate forse dal caldo esasperante, i piccoli sciami di forestieri di passaggio pochi giorni.
Su quegli scorci, desunti dall’alto e subito nascosti da tettoie o pareti allucinate dal sole, si sovrappone il cuore caldo, per chi ancora ha voglia di memoria, dei racconti. Racconti di un passato in cui lo spazio è magro, c’è ingorgo di gente accalcata, stretta e in equilibrio storto sul declivio, l’afa incendia le ali delle mosche che rimangono all’aperto, meglio il fuoco esterno che l’inferno di quelle case senza porte, di quelle smilze cavità, più faglie ammalate che caverne. Com’è possibile? Era così davvero, fu così, pochi anni fa, questo spettacolo di quiete, di splendore? Questo bianco inscalfibile e ulteriore, il candore antico, quasi sacro, delle molteplici, infinite Gerusalemme qui opportunamente rievocate negli inganni, nelle trappole in cui l’arte attira, a volte, il tempo.
Nessuna traccia di quel mondo in pena, solo luce e salute adesso, e la fierezza di una nuova e prodigiosa capitale.
Il tempo era scarso, quasi impossibile pensare a più discese e quindi solo un avvio di sonda, rimandando ad altri giorni lo scandaglio più lento e meticoloso, perlustrazione e incanto dedicati per stavolta a un solo luogo tra i tantissimi nascosti, incastonati in mezzo ai Sassi, la casa di Ortega, il grande artista, amico dei poeti, e si è sopraffatti dai colori in rivolta, tempere accese e nemiche delle sfumature, rapiti dalla presenza d’opere in tre dimensioni, quell’intuizione della cartapesta, visto il genio assoluto di sommi artisti qui a Matera, il sangue, l’urlo e la tragedia, catastrofe e martirio in ogni dittatura, le madri che si oppongono ai massacri, anche le tinte sono autentiche, in tumulto, concrete d’uovo, argille prese a graffi dal terreno, latte di fico, il Mondo insieme all’Uomo si solleva, fornendo il suo arsenale di materia.
Un’altra città, l’ho vista camminando per le strade che circondano l’ampio fosso della Matera più antica, perlustrata gironzolando quasi a caso, scoperta svoltando gli angoli, a sorpresa, della realtà venuta dopo, Piazza del Sedile, via Duomo… E allora è stata immensa la gioia di sfiorare queste pietre, arrampicate, emerse invece che addentrate nelle antiche sabbie della Murgia intorno, nelle vecchie fenditure poi ispessite quanto bastava e poi scavate ancora, accomodate in grotte quasi a mimare, a ripetere l’ansia sepolta in cave millenarie, un altro mondo di palazzi adesso, fieri, signorili, tra cui aggirarsi lievi, magari avvolti da improvvisi suoni sgusciati fuori dalle finestre del Conservatorio Duni, accenni, studi, note inseguite dagli allievi in prova e già magnifiche e liete al passante che ora vola giù in strada. Adesso qui, non più sprofondi, tutto s’innalza semplice, leggero, senza per forza rinunciare alla bellezza, magnifiche le Chiese, San Giovanni Battista, San Francesco d’Assisi, in vario stile, romanico, barocco, un passaggio dovuto alla via del Riscatto, la Cattedrale vista in un guizzo ma percependo, al di là della corsa, la scossa, lo stupore per gli affreschi riemersi da secoli lontani o per la pietra che si muove e che respira nella vita immacolata di un Presepe.
Infine ho immaginato nelle parole di Emilio Paolo Stasi e di Rossella Martino, gli amici che hanno guidato me e la mia famiglia in questi due giorni accelerati, ho sognato il grande Carro trionfale della Bruna, come fosse lì in piazza, imponente, nel suo prodigio altissimo di cartapesta, la devozione suprema, un nuovo modo dell’antica vicinanza, la folla, la città, Matera in festa…
L’ultima delle tre, che sembra da lontano addormentata nel suo letto di pietra e di preistoria, intromissioni e sbocchi nella Murgia materana, ben oltre le insistenze medievali di quell’arte dello scavo, l’avevo intravista da un terrazzo della casa di Ortega, ma quando stai lì, con tutto il corpo immerso, precisamente nella Gravina di Picciano, lo sguardo allora investe tutti i sensi oltre il pensiero, l’inizio che ci stringe, vita invisibile, camera interna, la nostra grotta per lo più dimenticata, ecco riemerge. Ognuno può decidere se mantenerla giù, sguarnita e sola, ancora al buio oppure illuminata da un ricordo, da un’azione improvvisa, un nuovo ascolto, quelle pareti a gran voce dipinte, in cui si ricapitola da sempre, a volte il romanzo, a volte la semplice frase che prova umilmente a intendere chi siamo. Tutto avviene in quell’alveare di grotte e insediamenti interrati, nella cripta del Peccato Originale, accanto alla Gravina, al suo ricordo inciso giù alle grotte, la chiesa rupestre col ciclo di affreschi, i Cento Santi e Mille Storie Sacre, la calma laboriosa dei Benedettini, il culto e la caverna, le immagini salvate sulla pietra in cornici di fiori, corolle rosse e presenze di Luce divina, l’albero, il serpente, l’Eden goduto appena e già perduto, gli uomini al loro inizio oltre il giardino, e adesso in mezzo ai datteri, ai sedimenti marini, in questa spiaggia di calcarenite, in queste terre emerse, calcolando adesso, in questo istante, sono sessanta, settanta, ottanta milioni d’anni esattamente.
Senza aspettare così tanto tempo, bisognerà prestissimo tornare…