L’affine è lo specchio in cui gli uomini si riconoscono, il canto solista che si fa coro.
L’affine è il limitrofo, ciò con cui si condivide il confine, ciò che ci somiglia anche se, in qualche modo, mantiene la propria identità.
“Quando il pensiero, chiamato da una questione, la segue, durante il cammino può accadergli di mutare”, così comincia il saggio di Martin Heidegger, “Identità e Differenza”.
Ecco, quando mi è stato comunicato il tema di questo numero dei Quaderni, la prima cosa che mi è venuta in mente non è stato l’affine come vicino e somigliante, ma l’affine come scintilla di cambiamento, come momento sintetico tra la tesi iniziale e la sua antitesi, per dirla alla maniera hegeliana.
La seconda cosa che mi è venuta in mente è stata un titolo: “Degli eroici furori” di Giordano Bruno. La mente eccelsa del nolano racconta, nelle pagine di questo dialogo, la meravigliosa potenza dell’Amore in grado, con la sua natura doppia, di modificare gli amanti, ogni amato è anche amante, ogni amante è disposto a rinunciare a una parte di sé per rinascere alla nuova vita dell’amato, il confine si assottiglia e il limite estremo passa dal fuori al dentro.
Nelle pagine di questa opera superlativa, complessa e geniale, Bruno descrive la figura dell’Eroe Furioso e la esplicita in modo consistente nei versi dedicati al mito di Atteone. L’eroe furioso è alimentato dall’amore per il divino e per il sacro (inteso come il separato, l’affine, il senza limite) ma, mentre gli uomini ordinari hanno la divinità, gli eroi sono divini, trasformano l’oggetto del desiderio in sé stessi o almeno tentano, titanicamente, di farlo.
Il termine furioso indica l’individuo che si ribella al finito, indica colui che bruciato dalla luce della conoscenza, quella luce vuole seguire fino a incenerire, come una falena attratta dalla fiammella, come Icaro che vola oltre il confine dell’umano: “…che io cadrò morto a terra ben m’accorgo ma qual vita pareggia al mio morire?”, così dice Giordano Bruno.
Il mito di Atteone compare nel IV dialogo della prima parte dell’opera bruniana, egli è il cacciatore coraggioso che per la sua curiosità fu trasformato da Diana in cervo e dilaniato dai suoi stessi cani; il mito, raccontato in versi lirici, era già stato narrato da Ovidio nelle “Metamorfosi”, Bruno lo rimaneggia e lo approfondisce.
Atteone, mirabile cacciatore, è impegnato in una battuta di caccia con la sua muta di cani, addentrandosi nel bosco vede un gruppo di ninfe fare il bagno in uno specchio d’acqua cristallino e fra loro intravede la più bella, volto discreto e protetto dalla selva, corpo statuario e perfetto come solo la divinità può avere; infatti, la donna non è ninfa ma dea, Diana per la precisione, mai nominata perché il Vero non si nomina ma si svela.
Alla divinità nulla sfugge e, nonostante Atteone sia nascosto fra i rovi, ella si accorge di essere stata vista da un occhio umano; quell’umano sconterà con la giusta pena l’aver peccato di tracotanza; Diana compirà il suo gesto e Atteone assisterà impotente alla trasformazione del suo corpo in animale, da cacciatore di cervi, in cervo, da predatore in preda. La sua muta di cani non riconosce il cambiamento, non fiuta l’odore del padrone che fu e compie il suo lavoro, dilania l’ormai cervo Atteone con “morsi crudi e fieri”.
Tutto il mito è, come sempre, un’allegoria, un modo semplice per raccontare il complesso; Nicola Abbagnano, autore del manuale su cui hanno studiato generazioni di studenti, spiega che Atteone è simbolo dell’intelletto a caccia della verità e che Diana rappresenta quella verità, nuda e svelata come l’etimologia della parola in greco vuole dirci, a-letheia, senza nascondimento. Una volta intravista la verità, nulla può rimanere immutato, quel confine tra il finito e l’infinito non è più netto, non si intravede più la linea condivisa ma tutto si fa confuso e il limitrofo non è più quel somigliante nel quale mi riconosco, non è più l’affine che mi conforta, è il diverso che devo essere disposto a diventare, è la voce che udivo cantare e che diventa il mio canto.
I miti hanno sempre una componente apparentemente feroce, elementi, concedetemi la libertà di espressione, vagamente splatter, ma non vi è ferocia nel racconto di Bruno, semmai consapevolezza che la ricerca intellettuale, quella febbre causata dall’Amore, non può che portare alla trasformazione, all’essere strappati via da sé, come nel mito del musicista Marsia che sfidò Apollo in una gara e perdendo pagò con il supplizio della scorticatura, fu, in poche parole, strappato via da sé stesso. Come dicevo, la morte del cacciatore non ha tanta crudeltà come può sembrare, lo stesso Bruno la pone in relazione alla “morte di bacio” descritta da Salomone nel “Cantico dei Cantici”.
Presso la Reggia di Caserta è possibile ammirare un gruppo marmoreo che riproduce il mito raccontato da Bruno, anche la scultura sembra cancellare il confine, la sottile linea tra il mobile e l’immobile, i cani si muovono verso Atteone e l’eroe furioso è pietrificato in quel supplizio dei morsi che mastini e veltri continuano a infliggergli da secoli.
Raccontare l’affine è un’operazione romantica, un elogio della nostalgia; ne “I discepoli di Sais” il poeta Novalis racconta il senso dell’affine attraverso il fiabesco. La storia di “Giacinto e Fiorellin di Rosa” è un mito moderno che spiega come colui che si mette alla ricerca del vero trova, nel volto dell’altro, una parte di sé. Giacinto ha perso il suo amore Fiorellin di Rosa e intraprende un viaggio per recarsi dalla dea Iside, la dea dal volto velato, in modo da poter essere consolato; giunto al cospetto della divinità, il protagonista trova il coraggio di sollevare quel velo, come il gesto dello sposo alla sua sposa e, in quell’istante, trova il suo amore perduto e vede sé stesso nel volto di Iside.
La filosofia e la letteratura hanno declinato in ogni modo possibile il viaggio verso il vero riconducendolo al ritrovamento del sé nell’altro, o meglio, alla perdita del sé nell’altro; quando il capitano Achab giunge finalmente a Moby Dick, deve inabissarsi con lei per poterla possedere, quando “il vecchio” di Hemingway porta a casa il suo marlin, esso è divorato dai pescecani perché l’uomo e la natura sono destinati a fondersi, ciò che appare al di là della linea, è abbracciato dalla linea, ciò che era affine si fa identitario.
Ogni confine è una linea d’orizzonte entro la quale ci muoviamo, ogni radice affonda nella terra mobile della memoria, ogni affinità racconta chi siamo attraverso lo sguardo dell’altro, una verità che si fa carne e sangue solo quando siamo disposti a cedere una parte di noi stessi a quell’altro che sembrava straniero e che invece è fratello.