Sognare è un’attività prevalentemente umana, ma che permette all’uomo di trascendere in una dimensione che supera i confini della vita quotidiana. Il sogno si manifesta attraverso visioni oniriche, si carica di simboli e si pone ad un livello medio tra il reale e il divino: ad ogni modo, sognando si ha la sensazione di vivere in una dimensione diversa. Tuttavia, ogni sogno non potrebbe esistere senza la realtà, perché solo se esiste il reale allora può esserci l’immaginazione, la fantasia, lo spirito. Dante ne è pienamente consapevole, e non è un caso che la cantica dove il poeta sogna più spesso (all’interno del suo immaginifico e visionario viaggio nell’Oltretomba, anch’esso un grande sogno mistico e letterario) sia proprio il Purgatorio, il regno dell’umano, dove il giorno si alterna alla notte, dove non vige né il buio eterno dell’Inferno né la luce perpetua delle anime sfolgoranti del Paradiso.
Conforme al gusto medievale della numerologia, Dante colloca nel secondo regno tre diversi sogni, ciascuno dei quali occupa la mente del poeta viator quando egli si addormenta al calar della luce: il primo nel canto IX, il secondo nel canto XVIII (lo descrive nel XIX) e il terzo nel canto XXVII. Non si tratta solo di un parallelismo narrativo ben calibrato, poiché i sogni sono situati nei canti che contengono il numero 9 e i suoi multipli, e come sappiamo il 9 è il quadrato della Trinità. Si tratta infatti di visioni che descrivono situazioni fortemente connotate di valori simbolici, recanti profondi significati morali, spesso con la presenza di figure religiose o allegoriche, tutti accomunati dall’apparire di una immagine che idealmente si collega ad elementi divini o celesti. Il sogno dantesco è lontano dai sogni freudiani poiché non esprime desideri repressi o disagi interiori, ma al contrario è prefigurazione di un cambiamento che il pellegrino può cogliere con la ragione se opportunamente guidato nella comprensione dalla sua guida Virgilio.
Il primo dei tre sogni è narrato dal poeta all’inizio del canto IX, e accompagna il trapasso dalla Valletta dei Principi Negligenti, ultima sezione dell’Antipurgatorio dove Dante sta passeggiando scortato da Virgilio e Sordello, all’ingresso del Purgatorio vero e proprio.
Mentre è ormai l’alba, evocata dalla preziosa immagine di Aurora, compagna del vecchio Titone, che “già s’imbiancava al balco d’Oriente” (IX, 3), Dante ci fa capire che sta sognando attraverso la formula “in sogno mi parea” (Purg. IX 19 e XXVII 97). L’ora in cui gli si presenta il sogno sembra assicurare al pellegrino che si tratta di una visione attendibile e molto realistica: è noto infatti che i sogni elaborati dalla nostra mente nella parte finale della notte, ossia all’alba, fossero creduti sin dall’antichità molto veritieri e degni di maggior rispondenza con il mondo reale.
Dante confessa di aver visto apparire un’aquila che piombava su di lui per rapirlo e trasportarlo sul monte Ida presso l’antica città di Troia (da non confondere con il monte Ida dell’isola di Creta), luogo da cui prese le mosse la progenie degli antichi Romani. Precisa poi di sentire un forte calore, tanto che è costretto a ridestarsi immediatamente. Virgilio poco dopo (vv. 55-60) gli chiarisce che in realtà, durante il suo sonno, è sopraggiunta Santa Lucia che lo ha afferrato per condurlo in volo in un punto dove la montagna rocciosa ha una fessura, ossia proprio all’ingresso del Purgatorio (Purg. IX, 13-33):
Ne l’ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de’ suo’ primi guai,
e che la mente nostra, peregrina
più da la carne e men da’ pensier presa,
a le sue visïon quasi è divina,
in sogno mi parea veder sospesa
un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
con l’ali aperte e a calare intesa;
ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.
Fra me pensava: ‘Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse d’altro loco
disdegna di portarne suso in piede’.
Poi mi parea che, poi rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.
Ivi parea che ella e io ardesse;
e sì lo ’ncendio imaginato cosse,
che convenne che ’l sonno si rompesse.
È evidente che il sogno unisce in maniera mirabile sensazioni irreali, ma fortemente simboliche (il volo, che rappresenta l’innalzamento verso una dimensione altra del suo viaggio; l’aquila, che è interpretabile come una allusione politica all’istituto imperiale, elemento imprescindibile nella concezione universalistica e anti-regionale di Dante), a sensazioni vere che vengono rielaborate nella visione onirica (il prendere fuoco della sua pelle e dell’aquila che lo trasporta, evidente trasfigurazione del calore del sole che già era alto nel Purgatorio al suo risveglio: “e ‘l sole er’alto già più che due ore”, IX, 44). Non c’è alcuna frammentazione irrazionale, nessuna scomposizione da rielaborare per ricomporre un quadro coerente, tutto avviene in una successione temporale chiara e univoca. Il sogno dantesco non è ineffabile e indecifrabile, come siamo abituati a concepirli noi contemporanei persuasi dall’impostazione freudiana.
Alla fine del canto XVIII Dante si addormenta nuovamente. Siamo giunti al secondo momento topico della sua salita, ossia l’ingresso nella quinta cornice che segna l’inizio dell’alto Purgatorio; Dante sogna una donna di aspetto deforme la cui bruttezza simboleggia i vizi morali e i peccati in cui la nostra anima inciampa: essa è infatti balbuziente (“femmina balba”, Purg. XIX 7), con evidente richiamo ai vizi della gola, ha gli occhi strabici (“ne li occhi guercia”, Purg. XIX 8), segno di lussuria, e le braccia e le gambe storte (“e sovra i piè distorta, / con le man monche” XIX 8-9), a ricordare l’avarizia. È definita femmina con evidente disprezzo per alludere alla sua ferinità, proprio perché riassume in sé quanto vi è di moralmente indegno e repellente. Nonostante il suo aspetto ripugnante, la donna sembra affascinare il pellegrino, che rimane inebetito e non riesce a distogliere da lei lo sguardo: coerente alla tradizione classica e biblica, che rappresentava il male travestito da seduzione e ingannevole falsificazione, Dante si sente un novello Ulisse ammaliato da una sirena, che con accenti suadenti e sottilmente erotici
«Io son», cantava, «io son dolce serena,
che’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena! (21)
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!».
A salvare il pellegrino interviene, sempre nel sogno, un’altra donna, simbolo della Ragione, o della Grazia, o della Temperanza: ella intima a Virgilio di afferrare la femmina per squarciarne le vesti e palesarne la vera sembianza, e il fetore emesso dal suo ventre provoca l’improvviso risveglio del poeta.
Il sogno ha turbato Dante, il quale procede meditabondo interrogandosi sul significato della visione (vv. 55-57); per rassicurarlo, Virgilio gli fornisce la corretta interpretazione di quanto ha sognato, spiegandogli che la femmina balba rappresenta i peccati che vengono espiati nelle ultime tre cornici del Purgatorio, per combattere i quali l’uomo deve operare con sollecitudine e solerzia respingendo le seduzioni dei beni materiali.
Il terzo sogno del Purgatorio si svolge in una atmosfera pastorale, ma che solo apparentemente ha sapore bucolico perché è tutta intrisa di quella solennità che caratterizza i momenti di contemplazione mistica; Dante, alle soglie del Paradiso Terrestre che è in cima al monte del Purgatorio, si addormenta insieme a Virgilio e Stazio: è calata la notte e il loro viaggio non può proseguire. Dante osserva le stelle, e mentre le guarda, gli sopraggiunge il sonno e sogna nuovamente (Purg. XXVII, 94-108):
Sì ruminando e sì mirando in quelle,
mi prese il sonno; il sonno che sovente,
anzi che ‘l fatto sia, sa le novelle.
Ne l’ora, credo, che de l’oriente,
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d’amor par sempre ardente, (96)
giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea: (99)
«Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda. (102)
Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno. (105)
Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga
com’io de l’addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga». (108)
La donna che appare a Dante è molto diversa da quella del canto XIX: è una donna virtuosa, Lia, la seconda moglie di Giacobbe, che rappresenta la vita attiva, come è testimoniato dalla sua attività manuale, dedita all’intreccio di ghirlande, e del compiacimento nel sapere di operare bene, come è provato dall’immagine dello specchio.
A differenza di Lia, la sorella Rachele è simbolo della vita contemplativa, dato che si specchia tutto il giorno e mai si allontana “dal suo miraglio” (105). Dante ribadisce che il sonno prefigura qualcosa che sta per accadere, e infatti Lia e Rachele da un lato richiamano le figure di Virgilio e Stazio, rispettivamente incarnanti lo spirito cristiano attivo e la visione contemplativa della potenza divina, dall’altro preannunciano l’apparizione di Matelda nel canto XXVIII, collocata in una natura statica e accogliente, intenta a intrecciare fiori come Lia nel sogno.
I sogni della Divina Commedia richiedono una identificazione trasfigurale tra le persone e le cose che appaiono nella visione e ciò che esse rappresentano; nella Vita Nova, invece, Dante fa un sogno diverso, che si connota come premonizione della morte della donna amata. Nel capitolo III, dopo la seconda apparizione della “gentilissima”, Dante confessa di aver sognato che Amore faceva mangiare a Beatrice il cuore del poeta; la visione lo sconvolge a tal punto che decide di comporre il sonetto “A ciascun’alma presa e gentil core” per renderla nota a “tutti li fedeli d’Amore, e pregandoli che giudicassero” quanto vi riferiva. Facendo propria la lezione di Macrobio, che nel Commentario al ciceroniano Somnium Scipionis, appuntava che ogni sogno copre con figurazioni e vela di difficoltà i significati che necessitano di uno sforzo ermeneutico per essere correttamente decifrati (“somnium proprie vocatur quod tegit figuris et velat ambagibus non nisi interpretatione intellegendam significationem rei quae demonstratur”), Dante presenta il suo sogno come una profezia il cui senso è ormai chiaro a tutti, poiché, quando compone la Vita Nova, Beatrice è ormai morta per davvero: “lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici”.
Dante, pertanto, ci testimonia come il sogno sia interpretabile come un momento figurale: diversamente dalla psicologia moderna, quello che si sogna non è tanto un rimescolamento della coscienza, un coacervo informe di frammenti di realtà, ma è un momento di annuncio di qualcosa che sta per avvenire e che all’inizio trascende i limitati orizzonti della nostra umana comprensione. Il sogno ha una sua logica interna per Dante, vicino in questo alla sensibilità moderna che mette in campo ogni sforzo per cogliere nella realtà una manifestazione concreta e tangibile di quanto abbiamo sognato. Per questo noi proviamo a tradurre segni e simboli dei sogni: giochiamo numeri, interpretiamo situazioni e fatti irrazionali cercando di calarli nel vissuto quotidiano o rispolverando eventi lontani nel tempo, ricerchiamo corrispondenze pragmatiche alle immagini inspiegabili o evanescenti che occupano la nostra mente durante il cosiddetto lavoro onirico. Dante, tuttavia, ci esorta a ripensare il sogno come un momento di elevazione spirituale, una fase della nostra coscienza che si distacca dalla realtà e che ci mette in comunicazione con una dimensione spirituale, non necessariamente mistica, che ci parla in maniera diretta, cifrata ma sincera, per scandire i momenti in cui dobbiamo assurgere ad un modo di vivere e di essere più alto e meditato, nella consapevolezza che il sogno “anzi che ‘l fatto sia, sa le novelle” (Purg. XXVII, 93).