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uaderni de La Scaletta

A cosa può servire un viaggio se non per incontrarsi?

Porte al vento

Michikusa - 道草 - «mangiare erba sulla strada»

Quando si pensa ad un luogo come una passeggiata in cui fermarsi e perdersi, perennemente alla ricerca di nuovi dettagli in cui ritrovarsi, inizia l’avventura che dà esperienza tangibile al sogno. Il mio parte da un petalo che cade lieve, nel vento incorniciato da un torii, portale di un palcoscenico dove il risveglio contrasta il buio con nuovi albori.
Tokyo si sveglia così, allungando ombre soffuse dai grattacieli di vetro fin sopra i tetti dei templi antichi, ai suoni della natura che s’appresta in cinguettii mescolandosi a quelli dei tacchi dei passanti. È una città da sentire con gli occhi che non hanno modo di fissarsi a lungo, poggiandosi ora sui selciati incastonati da tombini colorati, ora sullo sfavillio delle insegne luminose che invitano ad entrare in centri commerciali abbaglianti.
Ritrovatasi metropoli moderna da quello che alla fine del XII secolo era l’antico, piccolo borgo di Edo, rappresenta una fenice rinascente dal fuoco che la divora. Mai china ai terremoti, agli incendi da cui sempre riemerge con nuova veste, ondeggiante dal centro che si distende tra la città alta alla bassa, mettendo in mostra il luccichio della rinascita, fino ai quartieri periferici che si annodano in un dedalo di viuzze, inframezzate di giardinetti dove l’orientamento lascia il numero e si affida ad un impreciso riferimento.
La prima volta che la vidi ebbi l’impressione che questa città, formata da molteplici luoghi di diverso assetto urbano, entrasse con forza nella poesia, nella pittura, nell’architettura, restituendosi in immagini vergini per lo spirito per quanto consumate dalla storia del suo vissuto.
È in questo luogo che sentimenti astratti, sopraffatti dalla meraviglia, si denunciano nelle scene delle figure visibili e negli scenari entro cui si collocano. Una metropoli dove ogni quartiere è un centro che lancia verso i bordi le proprie strade, case, vite ad intrecciarsi mutuamente a quelle altrui, un ingranaggio perfetto che morde un tempo sempre in corsa seppur fermo su sé stesso. Muovo il primo passo come scorrendo lungo una scacchiera, dove ogni elemento si muove in funzione dell’altro per una più alta difesa.
Ad Asakusa, distretto che apre le finestre sul fiume Sumida dove il simbolismo contemporaneo dell’edificio del gruppo Asahi, impreziosito dalla fiammella dorata progettata da Philippe Starck, strizza l’occhio al più antico tempio buddista, il Sensoji.
Qui un’enorme lanterna rossa dà accesso alla spiritualità che sgrana il passato lungo sentieri interiori come a segnare il percorso più sicuro verso il futuro. Uno spazio che conserva l’armonia del creato nell’interconnessione di campanelli, silenzi, nei profumi degli incensi. In questa religiosità profonda l’intimità è messa a nudo, diventa collettiva ed impossibile non sentirsi parte delle speranze, dei sogni come anche delle paure degli altri poiché l’intangibile viene esibito, scritto, letto in molteplici mattoncini che formano un unico muro.
Continuo a camminare, tra un passo svelto ed un filo d’erba che attira la mia attenzione arrivo a Ueno, il quartiere che domina il senso della meraviglia sul suo enorme parco dove, in primavera, i fitti filari di ciliegi proiettano lo sguardo verso punti definiti occlusi al cielo.
Quali zolle emergenti nel verde, il Tokyo National Museum, lo Zoo, il chiassoso mercato di Ameyoko che ancora si contrappone alla quiete dei templi, delle chiome erbose riflesse nel placido laghetto.
Un’altra città nella città che si scopre come scatole cinesi e unifica gli animi sotto l’ombrello protettivo della tradizione che, qui si esplica nel fare Hanami, godere della bellezza della fioritura dei ciliegi nel segno della caducità e della impermanenza, sostare nel presente sapendo che ogni fine è un nuovo inizio. Come a voler ritrovare la dimensione del frastuono giocoso, si attraversa un’altra porta. Akihabara apre il suo ingresso, il quartiere dedicato al commercio di manga, beni elettronici, videogiochi.
Una vetrina della tecnologia più avanzata e, al contempo, uno scrigno che conserva, tra tutti più forte, lo spirito del “kawaii” l’atteggiamento congenito a lasciare intatta la dimensione fanciullesca, il senso dell’attonito verso il reale, crescere restando ancorati alla parte pura, saldamente immobile del proprio cuore. Tutto richiama l’attenzione al divertimento, i negozi sono un pandemonio di oggetti e colori da ricercare in più piani sovrapposti. Diventano reali i personaggi degli anime, le ragazze pubblicizzano maid cafè per la strada e sembrano saltar fuori dalle pagine di un manga assorbendo sui propri vestiti tutti i colori dati dallo sfondo degli edifici.
Alzo gli occhi, la distanza non è una barriera alle vivide strutture rosse della Tokyo Tower, imponente faro puntato verso il cielo con cui telecomunica le vertigini dell’altura e che abbraccia Tokyo intera, restituendone l’enormità in un unico sguardo, la bellezza in un solo momento d’impatto. Da qui scelgo di proseguire verso Shinjuku attraversando il red gate di Kabukicho per ritrovare una dimensione nuova, un passaggio tra le stelle al neon che affondano le punte nel segno tradizionale di un torii riprodotto nella modernità d’una insegna e brillano sulla modernità delle quinte luminescenti.
Dal cavalcavia che stride ferroso è possibile ricollegarsi a tutte le contraddizioni di questo luogo prepotentemente meraviglioso. Il quartiere delle luci rosse e del futuro ma anche delle viuzze che accolgono l’anima coi fumi del cibo, i fiori e le lanterne agli ingressi e che sembrano costruirsi pezzo dopo pezzo coi piccoli locali caratteristici che ridimensionano verso terra l’architettura del cielo. E al cielo conduce dai vetri del Tocho, l’altissimo grattacielo sede del Governo Metropolitano, sorto dal progetto di Kenzo Tange, architetto rivoluzionario dell’architettura tradizionale giapponese.
A guardarlo nelle sue parti compositive, riprende i tratti di una cattedrale gotica, ne denuncia l’imponenza, lo slancio verso l’alto alla conquista di più alte sfere. Una luce obliqua attraversa i fumi dei neon e si posa su un fiore, è il Gyoen National Park che vuole lasciarsi guardare. Si spegne il rumore cittadino e gli uccelli invitano a seguirli tra i percorsi tortuosi che si aprono tra i prati e i ponticelli che scavalcano gli stagni incorniciati da una vegetazione dipinta ad acquerello dove ogni anima s’acquieta all’armonia del quadro che la ingloba. Scendendo appena d’un passo sono a Shibuya.
La città riprende la sua espressione vispa e vivace, le strisce pedonali muovono una folla incessante da un angolo all’altro di questo vasto spazio, un’onda che rende naufraghi in pochi istanti, occhi sgranati alla ricerca di un appiglio che sembra troppo lontano. Si sente Tokyo addosso, la sua vita che ruota in un carosello ibrido di volti fermi ad un semaforo, che blocca appena lo strepitio dei vortici umani, di studenti, impiegati, donne eleganti e kimoni che emettono il fruscio di un passato che va avanti.
In questa moltitudine che corre svelta, l’unico punto fisso che resta è la statua del cane Hachiko, simbolo di fedeltà a ricordare che l’amore ha una sola direzione, è attesa, è dedizione. Alla ricerca di nuovi varchi dove transitano le differenze, mi addentro tra le trame eleganti di Ginza che, adagiata sul ricordo del periodo Edo, s’alza ad afferrare il presente con la moda e l’arte. Tra gli edifici giapponesi spiccano le architetture sofisticate di quelli che ospitano famose case di moda, disegnando abiti occidentali che si cuciono addosso alle forme urbane preesistenti.
Di fronte al Ginza Wako, magazzino storico e simbolico del luogo, guardo il suo grande orologio posto in cima e mi accorgo che la luce del giorno inizia ad incidere profili arancioni sugli specchi dei palazzi avvisando che la notte sta per calare e che nuovi luoghi sono da scoprire.
La luna splende su Roppongi, timida al cospetto delle luci d’umana derivazione. Nato da sei alberi di zelkova che ne contrassegnavano l’area, porta con sé il passato della distruzione durante la seconda guerra mondiale e quello della ricostruzione aperta all’assetto internazionale dato dalla presenza in un periodo trascorso, delle basi americane che, nel trascorrere del tempo, ne hanno definito l’assetto attuale sullo spirito di conservazione dei locali nel gestire l’identità straniera.
Definito come un incrocio tra Tokyo e il mondo, questo lembo di territorio s’assesta sulla presenza di numerosi ristoranti occidentali, discoteche e tipici locali giapponesi che, unitamente alle strutture ospitanti musei d’arte e centri commerciali conformano un luogo da vivere vivacemente nelle ore mattutine e con giovanile entusiasmo di sera in un ciclo continuo che cambia lo scenario del paesaggio ritmandolo sulla diversità di luce con cui il giorno procede. Il sogno porta ad un nuovo risveglio, a dorso d’un arcobaleno. Attraverso il Rainbow Bridge per approdare nella Baia di Tokyo.
Sono ad Odaiba, quartiere sorto su un’isola artificiale, definendone la baia che infonde la completa evocazione della bellezza tra lo sfavillio di architetture moderne e attrazioni d’elevata tecnologia che svettano sullo sfondo panoramico del mare, avvolte dalla rilassante visione di scenari dominati dalla natura e restituendo la serenità di una costante brezza marina che s’insinua libera in ogni piazzale, pontile e che accarezza il viso, muove i capelli mentre si passeggia, mentre si beve un caffè.
Costruita dallo shogunato di Edo verso la metà dell’ottocento come difesa militare dalle invasioni provenienti dal mare, ha acquisito nel tempo la funzione del divertimento.
Luogo di vacanza giornaliera in cui perdersi nella spensieratezza con gli amici, con la famiglia o ritrovarsi ad un appuntamento coi propri pensieri guardando il mare e il Rainbow Bridge che si illumina in multicolori su una Tokyo frontale, in uno scenario immaginifico che si può toccare.
Come è possibile toccare con mano il mondo della fantasia rinchiuso nel maestoso Gundam, robot a grandezza naturale che accompagna fisicamente nel cartone animato attraverso i suoi movimenti e suoni e, ancora, toccare l’America ponendosi di fronte ad un’altra Statua della Libertà, sorella che domina il Pacifico. Da un punto all’altro arrivo al momento in cui il sogno s’avvia alla fine, sono al Mori Digital Art Museum! Non ci sono quadri, non sculture, non opere d’arte conservate eppure c’è tutto questo richiuso in livelli sfalsati, mobili come dita di una mano che porge un’esperienza sensoriale come avventura artistica.
Si parte da stanze oscure e corridoi resi paralleli dagli specchi, i soffitti si deformano e gocce di luce cadono dall’alto, onde e fiori s’attaccano ai vestiti e si scompigliano camminando, giardini di lucciole e cieli di lanterne che sfiorano gli occhi e l’anima mentre il cuore salta un battito a sentire lo spazio intorno infinito ed immenso, dove il sogno è linea limite tra la fantasia e il reale e dà risposta al Michikusa di ogni luogo interno ed esterno, perdendosi e ritrovandosi nel suo senso.

Giuliana Paragliola
(Architetto)
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