(Centro di maternità di EMERGENCY. Anabah,Panjshir, Afghanistan.2019)
La fotografia è nata per trattenere memorie, per “catturare” e “immortalare” ciò che si trova di fronte all’obiettivo al momento dello scatto. Per meglio dire, la luce riflessa da ciò che si trova di fronte all’obiettivo. Da fotografa, cioè scrittrice o disegnatrice con la luce, so che le immagini più significative sono quelle che toccano le memorie più profonde, consce o inconsce che siano.
Ero stata incaricata di fotografare il Centro di maternità di EMERGENCY nel Panshir, la valle del comandante Massoud, l’eroe nazionale afghano. Non mi tenevo in me dalla gioia perché dopo aver lavorato tanto negli ospedali in Paesi di guerra non avevo ancora avuto occasione di fotografare un parto. Ed ero molto emozionata dal fatto che avrei visto partorire le donne che si conoscono solo per il burqa. Davvero il mio è il lavoro più bello del mondo! Ho impostato il mio reportage sul “corpo delle donne afghane” perché, come ha insegnato il femminismo, il corpo delle donne è legato alla presenza o assenza dei loro diritti e libertà. Altro che burqa – che è per altro l’ultimo problema delle afghane: avrei conosciuto quelle donne attraverso il racconto delle loro ginecologhe. Avrei scoperto il totale riserbo delle stanziali e l’altrettanto totale ma diametralmente opposta naturalezza delle nomadi kuchi.
Avrei assistito all’evento più grandioso dell’universo, la pericolosissima danza fra la vita e la morte – il parto è così drammatico da sfiorare la morte – in cui vince, quasi sempre, la vita. La prima nascita che ho visto è stata così frettolosa che è avvenuta in ambulatorio sul lettino dove normalmente si fanno visite ed ecografie. L’ho vista sfocata dalle mie lacrime. Ne sono seguite tante altre: nel Centro nascono una ventina di bambini al giorno.
Come in tutti i viaggi, è arrivato il momento della crisi: ho scoperto che avrei potuto fotografare solo le parti cesarei. Tutta la mia attenzione era rivolta a quelli naturali, ovviamente, che si svolgevano lentamente, illuminati dalla bella luce naturale che entrava dalle finestre con vista sui monti del Panshir. Invece avrei lavorato in condizioni difficilissime: i tagli cesarei del Centro sono solo d’emergenza, fatti per salvare la vita del bambino e/o della mamma. Il neonato passa sotto il fascio della luce più cruda possibile, quella della sala operatoria, e entro 4 secondi viene portato via. Inutile dire della mia delusione.
Ma, al di là della difficoltà, o forse grazie a quella, la prima immagine che ho visto mi ha fatto affiorare la memoria antica di bambini che nascono dalla pancia della mamma, perché è quello che immaginavo in un tempo dimenticato.
Ho visto Cappuccetto Rosso salvato dalla pancia del lupo cattivo, che in questo caso era buono. Riaffiorata la mia immagine infantile, potente, ho lavorato con quella insieme alle nuove che passavano davanti al mio obiettivo. Quelle immagini sono diventate il cuore della mia mostra Afghana che è stata esposta in tanti bei palazzi italiani e, grazie a La Scaletta, negli Ipogei Motta di Matera. Mai avrei sognato un luogo più adatto, evocativo di un’altra natività in grotta al freddo e al gelo, e di un vangelo pasoliniano. Inoltre, abbiamo una memoria collettiva. Per questo la curatrice della mostra Virginia Vicario ha scelto di accompagnare le foto con dei brani tratti dalle poesie di Galal-ad-Din-Rumi, poeta mistico persiano nato nel 1207 a Balkh, attuale Afghanistan, ma dall’afflato universale. Inni alla vita, come questo:
Danza, quando sei distrutto,
danza, se hai strappato le bende.
Danza nel bel mezzo del combattimento.
Danza nel tuo sangue.
Danza quando sei perfettamente libero.
In fondo, siamo memorie viventi. Le nuove immagini si associano alle vecchie, si trasformano e ci trasformano, e creano la nostra storia.