Di seguito si pubblica una recensione apparsa sulla Gazzetta del Mezzogiorno l’11 maggio 2020 a firma Raffaele Nigro.
Il cre-attivo Petrocelli attore, regista, poeta
Di qua il confine è a tre metri dall’ulivo: il segno è una pietra scura. Di là la peraspina è in comune, ma l’innesto di perapoma è nostro in fondo al fosso con i rovi”. Parte così la raccolta di versi PeraspinaPerapoma di Antonio Petrocelli, premiata a Firenze nel 2019 con il Fiorino d’argento e pubblicata da Treditre di Rita Genovesi. Petrocelli è molto più noto come attore, debutta nel capoluogo toscano nel 1976, col Teatro della Convenzione, città dove è approdato a quattordici anni da Montalbano Ionico. Una intensa attività teatrale, intervallata da una lunga serie di ruoli nel cinema italiano, ruoli primari e secondari in molti film, alcuni dei quali di grande successo: Caruso Pascoski, Palombella rossa, Il portaborse. La scuola. Oltre cinquanta film con registi del calibro di Giuseppe Bertolucci, Marco Bellocchio, Nanni Moretti, Gabriele Salvatores, Paolo Sorrentino. Ma si sa che gli attori nascondono sempre una vena creativa di varia resa e Petrocelli si proverà come autore e regista del cortometraggio II corpo del Che nel 1996, e l’anno successivo eccolo vincitore del Premio Solinas con il soggetto cinematografico All’alba il pane bianco.
Ma la polifonia di Petrocelli si è espressa anche nella narrativa e ha pubblicato nel 2001 Volantini con l’editore Calice e nel 2010 torna al romanzo con Il caratterista Basilisco del Cinema Scaturchio.
Intanto traduce in lingua le poesie tursitane di Pierro, mentre pubblica con Treditre una prima raccolta di versi, Garofani.La linea che segue si apre a vari argomenti, quella politica, con l’attenzione a Che Guevara, l’attaccamento alla cultura lucana, la memoria di una civiltà contadina, arcaica e semplice, la stessa che gli ha dato le basi nella sua infanzia e adolescenza sulle rive dello Jonio e del Sinni.
Di questi temi avemmo modo di discutere in una sera calda e felice trascorsa a Sasso di Castalda, convenuti per parlare e leggere brani dai diari di don Giuseppe De Luca, l’intellettuale che a Roma fondò nella prima metà del Novecento l’omonima casa editrice. Petrocelli non mi parlò della sua fortuna cinematografica ma della bellezza di San Casciano Val di Pesa, dove vive con Camilla e Maurizio, dei ricordi di Montalbano e di un Eustachio Petrocelli, suo involontario omonimo e protagonista di Malvarosa, un mio libro del 2005.
Veniamo al libro di versi. E’ davvero un libro poderoso nella sua apparente semplicità, ed è un peccato che la poesia tenda oggi a vivere come uno sperduto messaggio in bottiglia, perché meriterebbe di essere conosciuto da un pubblico più vasto.
“La poesia di Petrocelli- scrive Andrea Di Consoli nella prefazione – si può ascrivere a pieno titolo – da Esiodo a Scotellaro – alla poesia contadina, ovvero a quella linea poetica che porta nei versi oggetti, sapienze, saggezze, ricordi e malinconie umili espresse in sermo humilis, in una lingua essenziale ed esposta com’è sempre esposta la vita di chi vive nella terra”.
Il libro è infatti un poemetto sulla terra, sulle vigne e su tutto ciò che riguarda questi temi, la fondiaria che si deve pagare sempre e non aspetta, il concime che è necessario, il costo del grano, le olive offese dalla mosca olearia, le arance facili a gelarsi. O una cosa banale come la scelta di una coppola che riscaldi d’inverno e tenga freschi d’estate. La guerra ai rovi e alla gramigna, i ceci nella pignatta e la vernice fresca da dare alle finestre.
“L’ulivo molta aria/il pero tanta cura/il limone ti dà pena/ l’arancio vuole acqua./Col mandorlo in fiore/ti passa il dolore/Il fico trattalo da nemico”.
Sentite in questa serie di dettati essenziali la lingua quanto è semplificata? Frutti azioni oggetti che appartengono in parte al vocabolario contadino e ormai in disuso o poco noti alla nostra formazione metropolitana, altri ancora vivi perché presenti sulla nostra tavola. E’ la lingua di tutta una Lucania letteraria del Novecento, presa in prestito da un’area sociale diversa dalla cultura borghese e industriale.
Ma proseguendo nella lettura ecco emergere una figura a cui scopri che i versi sono dedicati: mio padre toma. Scrive Petrocelli: “Mio padre torna sul vecchio sentiero col passo possente di chi vorrebbe riempire un barile di rugiada. Ha la faccia nera di chi combatte contro il sole con un braccio piegato sugli occhi. Nel pugno stringe un fazzoletto bianco”.
Scrive ancora Di Consoli: “Realista come Scotellaro, limpido come Sinisgalli, ctonio e oltretombale come Pierro, Petrocelli ha… dissotterrato non soltanto un groviglio psichico personale legato alla paternità”.
Io andrei oltre, il padre è un padre collettivo, è l’immagine di un mondo semplice e perduto, non legato alla televisione, alla superficialità, alla banalità di questi anni, è ciò che sta prima di ora, legato al tempo in cui eravamo povera gente, e non c‘era spazio per la finzione, la natura era il referente più importante del nostro dialogo, un tu collettivo e infinito del quale ci si sentiva parte e con il quale bisognava quotidianamente confrontarsi e combattere.