Dire qualcosa di originale sul capolavoro di Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, pubblicato per la prima volta nel 1951 è un’impresa destinata a fallire in partenza. Su questo testo, una pietra miliare per chiunque decida di avvicinarsi alla meravigliosa complessità umana, è stato scritto tutto, e quello che non è stato scritto, certamente è stato sottinteso tra le righe di ogni critico, di ogni letterato, di ogni lettore devoto.
La prima volta che lessi Memorie di Adriano ebbi una specie di epifania, avevo diciannove anni, mi ero appena iscritta alla facoltà di filosofia e, per acquistare i libri con il mio budget da studentessa fuori sede, compravo riso, pasta, parmigiano e mangiavo solo quello per l’esatta metà del mese ma in quel modo potevo entrare da Comunardi (storica libreria torinese) o da Feltrinelli e tornarmene a casa con le mie letture. Così ho letto gran parte delle cose più formative per la mia anima inquieta e curiosa. Dicevo che ebbi un’epifania, compresi che cosa volesse dire leggere un “classico”, compresi il concetto di classico. Il classico è un canone interpretativo del mondo, arriva dal futuro e diventa cifra del presente (e anche del passato), è come imbattersi nel Museo di Bilbao che si staglia all’orizzonte come un’astronave atterrata dal futuro (credo, ma non lo ricordo con esattezza, sia stata la frase pronunciata dal direttore del Museo al momento della sua inaugurazione).
Anche Marguerite Yourcenar sapeva bene cosa fosse un classico, lo sapeva talmente bene che da bambina e da autodidatta imparò prima il latino e poi il greco e così riuscì a leggere il suo amato Aristofane, anche lui uomo del futuro, in lingua e senza lo scarto inevitabile della traduzione.
Non potendo dire nulla di nuovo sull’intera opera e desiderando rimanere fedele all’idea che certi capolavori arrivano nel mondo per essere una sorta di Stele di Rosetta per l’esistenza dell’uomo, vorrei soffermarmi sulla contemporaneità del capitolo intitolato “Tellus Stabilita”; qui Adriano esprime le sue profonde intenzioni per lasciarle in eredità a Marco Aurelio, imperatore filosofo che solo potrà essere verbo incarnato di quella Repubblica platonica che vede lo stato amministrato dai saggi, funzionari a servizio della cosa pubblica, non Cesari ma devoti servitori della comunità.
“La mia vita era rientrata nell’ordine, non l’Impero. Il mondo che avevo ereditato somigliava a un uomo nel fiore degli anni, ancora robusto, nel quale però l’occhio del medico scorge indizi impercettibili di logorio, come chi è appena uscito dagli spasimi d’una malattia grave”, così comincia il capitolo e così Adriano descrive la difficile scelta di dover riportare ordine, anche attraverso le odiate epurazioni, prima che quel logorio divenga irreversibile. Adriano però desidera compiere scelte equilibrate, desidera essere mite, non come una scelta premeditata di cui lo accusavano i detrattori, “volevo che il mio prestigio fosse personale, che aderisse a me e si misurasse immediatamente in termini di agilità mentale, di forza, di imprese compiute. I titoli, se dovevano venire, sarebbero venuti più tardi…”
Adriano intende dirigere Roma come un luogo dal quale potersi allontanare senza che ci si accorga della sua assenza perché “la morale è una convenzione privata ma il decoro è una faccenda pubblica” e Roma non è più soltanto l’Impero ma l’orizzonte nel quale Adriano si muove , la città che non perirà con l’ultima città degli uomini, il luogo dove l’Imperatore racconta la sua storia con l’incisione “Humanitas, Felicitas, Libertas” sulle monete del suo tempo e del suo governo. Fedele alla visione di Platone, Adriano confessa di credere poco alle leggi e a questo punto del testo leggiamo uno dei passi più belli delle Memorie; l’autrice, per bocca di Adriano dice: “ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva; spetta al legislatore abrogarla o emendarla, per impedire che il dispregio in cui è caduta quella stolta ordinanza si estenda ad altre leggi più giuste. Mi proposi d’eliminare cautamente le leggi superflue e di promulgare con fermezza un piccolo numero di saggi decreti. Sembrava giunta l’ora di riesaminare, nell’interesse dell’umanità, tutte le prescrizioni antiche”. La mia personale memoria mi riporta alla me di molti anni fa, quando lessi questo passo e lo rilessi e poi ancora perché non mi capacitavo di come un’opera degli anni ’50 fosse così vicina al mondo nel quale vivevo, oggi me ne capacito ancor meno. Da questo punto in avanti leggiamo di come l’Imperatore decida di regolamentare la condizione degli schiavi, dei contadini, delle donne, da qui in poi possiamo leggere un valore nascosto nell’iscrizione sulle sue monete ovvero che senza uguaglianza non vi è umanità, felicità e libertà alcuna (naturalmente questo non significa abolire la schiavitù o le disuguaglianze, siamo pur sempre ai tempi dell’Impero). Sugli schiavi mi sembra di poter rintracciare l’eco del Quaderno 22 di Antonio Gramsci quando Adriano dice che pur riuscendo a trasformare gli uomini in macchine stupide e appagate che si credono libere mentre sono asservite e definisce questa una schiavitù ben peggiore, tornano alla mente i “gorilla ammaestrati” del nostro Gramsci, uno degli intellettuali più influenti nella storia del ‘900.
Sulle donne poi, le parole di Marguerite Yourcenar sono cesellate con una punta di diamante, incise a futura memoria, dedicate alle donne di ogni tempo, perché questo significa avere a che fare con un classico, un canone, come dicevo prima, valido sempre, senza confine di luogo e di tempo; “le donne vogliono essere quel che sono, resistono ai cambiamenti o li volgono esclusivamente ai propri fini. La libertà delle donne di oggigiorno, più grande o almeno più apparente che ai tempi antichi, in fondo non è altro che uno degli aspetti della maggiore facilità della vita propria delle epoche prospere; i principi, e anche i pregiudizi d’altri tempi, in realtà non sono stati seriamente intaccati”. Ecco, qui diventa davvero difficile pensare a quest’opera del 1951 e non intravedere la sua estrema vicinanza a noi e al nostro mondo che sembra non aver compiuto un passo al di là di quei pregiudizi non intaccati.
Arriviamo alla fine di questo capitolo con pagine di ampio respiro sul valore del cosmopolitismo, Adriano non ha mai sentito di appartenere a un luogo specifico, si è sentito straniero dappertutto ma mai isolato in nessun luogo; l’Imperatore ridisegna i confini e, dopo un cenno alla costruzione del Vallo, si lascia rapire dall’Oriente, dai suoi misteri e dalle sue costruzioni altre, siano esse materiali o spirituali. “Ho ricostruito molto e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di «passato», coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti. La nostra vita è breve: parliamo continuamente dei secoli che han preceduto il nostro o di quelli che lo seguiranno, come se ci fossero totalmente estranei; li sfioravo, tuttavia, nei miei giochi di pietra: le mura che faccio puntellare sono ancora calde del contatto di corpi scomparsi; mani che non esistono ancora carezzeranno i fusti di queste colonne”. Ogni parola di quest’opera si inserisce in una prospettiva esistenzialistica che descrive la fine, la morte, come unica certezza della vita e tra l’inizio e il termine ultimo stanno un insieme di possibilità di kierkegaardiana memoria, sta la scelta, il pentimento, l’angoscia per l’ignoto.