La memoria è la capacità di riprodurre i pensieri senza che ritorni l’occasione che li ha generati, è un contrassegno per ricordare, è la platonica capacità di richiamare alla mente cose apprese e solo apparentemente dimenticate.
Nel linguaggio comune, ormai troppo impoverito, noi usiamo memoria e ricordo come sinonimi ma, il ricordo, ha sempre necessità di stimolo mentre la memoria, coinvolgendo quello che Bergson avrebbe chiamato “tempo della coscienza”, è la presenza di tutti i sensi e di tutti i sentimenti. Ad esempio, il ricordo meccanico dell’Infinito di Leopardi diventa memoria della luce pomeridiana, delle tende mosse dal vento, il bicchiere d’acqua sulla scrivania, lo sforzo di concentrazione che abbiamo provato nel memorizzare quei versi così musicali e così evocativi.
Io la chiamo esplosione sinestetica perché mi ricorda Baudelaire e quel mio professore di italiano che mi obbligava a imparare le detestate parole di Manzoni ma che mi spingeva a leggere i poeti che tanto amavo. Così ricordo l’Addio ai monti ma ho memoria del mio cuore pieno di emozione al volo leggero dell’Albatros e al suo passo goffo sulla nave e sulla terra, territorio degli uomini.
Allo stesso modo sovrapponiamo spesso la memoria, o le memorie, alla storia; eppure la distinzione tra i due termini è essenziale perché se la storia è il racconto documentato di eventi passati ed è il frutto del lavoro scientifico degli storici, la memoria si riferisce al modo in cui le persone ricordano o interpretano gli eventi vissuti, trasformando, appunto, la singola memoria in memorie multiple legate alle proprie esperienze e al proprio unico sguardo sul mondo.
Quando ho saputo la parola chiave di questo numero dei Quaderni, ho fatto quello che faccio abitualmente ovvero ho tentato di visualizzare dentro la mia mente un’immagine che potesse rendere concreto un concetto che ha a che fare con la fantasia, nel senso etimologico del termine, con la capacità di presentare alla vista un insieme di sensazioni vissute un tempo. Il tempo o meglio, l’intuizione pura di tempo come l’avrebbe definita Kant, è l’altra idea che mi si è presentata naturalmente alla vista.
Cercavo un elemento che con il tempo avesse un legame solido, così mi sono immaginato su una spiaggia, non per il mare che il fotografo Sugimoto ha meravigliosamente raccontato come elemento primo e immutabile della vita nella sua serie Seascape, ma per la sabbia, la pietra, la terra degli uomini consumata e assottigliata dai millenni, la fine materia di cui si riempiono le clessidre per misurare il tempo convenzionale, quello della fisica in un eterno girare e rigirare su sé stesse. La clessidra è il rimando più diretto al tempo ciclico che abbandona la visione cristiana del tempo lineare o, come dicono quelli che ne sanno, del tempo escatologico o tempo della salvezza, per muoversi nell’eterno ritorno dell’uguale dove la fine è l’inizio e viceversa senza soluzione di continuità. Nietzsche ebbe la sua epifania passeggiando su un lungolago in Val Engandina dove andava a trascorrere molti giorni per migliorare la sua salute fisica e per curare la sua irrazionale paura di essere preso per una altro, scambiato per chi non era, in una sovrapposizione di memorie che non avrebbe potuto tollerare – e il caso ha voluto che davvero lo scambiassero per un altro: in una edizione delle sue opere misero in copertina la faccia di un giovane Einstein perché lo scambiarono per il filosofo tedesco, a volte il destino è davvero strano-.
Ho poi aggiunto una maschera, affondata nella sabbia, perché volevo raccontare l’umano attraverso un oggetto dall’espressione immobile come immobile è quella perversa perseveranza che abbiamo solo noi esseri umani, quella di ripetere errori e disumanità come se non avessimo nessuna traccia del passato; la maschera rappresenta il volto dell’uomo, dell’uomo occidentale, dell’uomo figlio della Grecia, figlio di quella cultura che prima fra tutte ha guardato in faccia il dolore e la meschinità umana e ne ha fatto arte. La maschera è rotta, come rotta è la storia e rotto è l’uomo nel suo eterno ritorno al punto zero, disposto a ripetere il male in nome del potere.
Nella sua definizione logica l’uomo è un animale razionale, lo diceva Aristotele e teniamo per buona la sua definizione. Mi chiedo da tempo se il prezzo di questa razionalità è l’incapacità di imparare o l’incapacità di guardare per imparare, come fossimo condannati a un mondo di ombre che diventano pallido rimando del mondo vero al quale pochi uomini hanno accesso e al quale si arriva, come sosteneva Giordano Bruno in una delle sue opere più belle, il De Umbris Idearum, attraverso l’arte della mnemotecnica.
Ma voglio tornare al prezzo della razionalità e collegarlo alla storia; all’inizio di questa riflessione sottolineavo la differenza necessaria fra storia e memoria, ora però mi chiedo: se le memorie degli uomini potessero confluire in una memoria collettiva e se questa memoria collettiva potesse essere la molla propulsiva della storia, non sarebbe questo un modo per abbattere il costo della ragione e per imparare a non ripetere gli errori e gli orrori all’infinito?
Ho sistemato la sabbia su un piano, ho appoggiato la maschera come se fosse gettata come gettati sono gli uomini nel mondo e poi, con pazienza e con l’aiuto di diversi pennelli ho modellato onde e dune.
Le onde vogliono raccontare due cose: il vento, la natura che irrompe nel cammino dell’uomo a ripristinare l’equilibrio nei fatti storici, e l’eterno movimento a cui sono soggette le vite dei singoli e dell’intero universo. Avere memoria, essere in grado di custodire dentro di sé quante più memorie possibili mi appare come un codice etico, un codice di comportamento fondato sulle emozioni e sui sentimenti, capace di insegnarci che a peccare di arroganza si incappa sempre nel castigo e che forse, prima di farci sommergere dalle sabbie mosse dal vento, prima di perdere altri pezzi del nostro volto, quando non delle nostre coscienze, forse dovremmo ricordare, anzi no, avere memoria di ciò che possiamo e ciò che non possiamo, di ciò che è incerto e di ciò che è certo come a disegnare quel confine estremo (citando il precedente articolo) dentro il quale potremmo essere davvero umani e convivere con la nostra razionalità senza pagare in termini di disumanità.