Riscrivere la storia nello spazio pubblico
Opporsi a un’idolatria comporta molto spesso l’abbattimento dell’idolo che la rappresenta. Un abbattimento che è tanto tecnico, quanto spesso necessariamente rituale: la negazione di un idolo, infatti, non comporta la sua automatica decadenza nell’insignificanza, ma il più delle volte sembra sia necessario imbastire attorno a esso una vera e propria “liturgia del capovolgimento”. Non basta dimostrare che l’idolo sia vuoto, privo di senso, disconnesso da una dimensione valoriale o referente di un valore mendace. Non solo bisogna disinnescare razionalmente i suoi argomenti, ma si deve scendere nella sfera del simbolico, performando l’epurazione del suo simulacro dallo spazio pubblico.
Questa aspirazione catartica ritualizzata sembra accomunare ambiti che si direbbe essere opposti negli obiettivi di elevazione sociale, ossia quello religioso e quello civile. Pur facendo leva su motori del consenso e dell’aggregazione posti agli antipodi, nell’azione di abbattimento dell’idolo diventano indistinguibilmente politici: pensiamo all’abbattimento dei Buddha di Bamiyan (Afghanistan, 2001) o alla devastazione del museo di Mosul (Iraq, 2014); oppure all’abbattimento delle Torri gemelle o del Muro di Berlino; o alla statua di Saddam Hussein, tirata giù durante la presa di Baghdad (2003), non prima che un soldato ne avesse coperto maldestramente il volto con una bandiera statunitense, in una scena in mondovisione comunicativamente catastrofica che sembrava ricalcare il Sacco di Roma a opera dei Visigoti di Joseph-Noël Sylvestre (1890); o all’abbattimento della Colonna Vendôme su un letto di letame (Parigi, 1871) o della Bastiglia (sempre Parigi, 1789). Abbattimenti talmente ritualizzati – e oggi sapientemente sceneggiati a favore degli sguardi dei media internazionali – che Victor Hugo si sentì di porre tale “metodo” al centro dell’idea di una civiltà moderna: «Athènes a bati le Parthénon, mais Paris a démoli la Bastille» (1867).
Mito e teatro, religione e liturgia, istituzioni e legislazioni sono tutti strumenti di cui una società più o meno matura si dota per l’elaborazione di elementi che hanno un peso sulla sua conservazione. Abbiamo l’estrema necessità di costruire tabù e sensi condivisi che ci consentano di affidarci l’un l’altro ogni giorno e di essere relativamente certi che chi è intorno a noi non compia nessuna di quelle azioni che, pur estremamente semplici da attuare, sono generalmente fuori dalla sfera di ciò che è socialmente accettato. Una costruzione di reciproco affidamento sempre più complessa, in un occidente dilaniato dal tramonto delle proprie narrazioni e in cui si contrappongono spesso due poli culturali: quello progressista, perennemente impegnato nell’elaborazione delle colpe storiche occidentali e nella sua destrutturazione ad libitum, e quello conservatore, che, nel vagheggiamento di nuove egemonie, promuove nei fatti un pervertimento delle istituzioni e del loro peso sociale, dalla strapotenza di reti sociali e soggetti privati senza controllo, agli assalti di vichinghi in poliestere ai palazzi del potere. Sembrano rispondere, come estreme sconfessioni di una fiducia civile mal riposta, le stragi nelle scuole statunitensi o il terrorismo internazionale negli spazi pubblici: un discorso tra sordi, a colpi d’arma da fuoco, tra sicurezza e apertura, scetticismo e fiducia, privato e pubblico, particolare e generale.
C’è una dimensione particolarmente eloquente in cui la discrepanza tra collettivo e plurale, o tra pubblico e individuale, determina oggi conflitti che segnano l’esaurimento di alcune delle forme culturali di cui ci siamo dotati nei secoli a tutela di una certa idea di conservazione sociale: l’allontanamento della dimensione delle memorie da quella di una storia incapace di assorbirle, disconosciuta, sconfessata, e la conseguente conflittualità intorno alla categoria del monumentale, dell’idolo, che i nostri tempi gestiscono sempre con maggiore impaccio e ipocrisia. Dopo il tramonto delle forme politiche assolute in occidente, che erano in grado di determinare una volta per tutte il gusto, la moda e la toponomastica per conto di tutti, tutto è necessariamente oggetto di negoziazione. Anche la storia, che si mischia e si fraintende spesso con frammenti di memorie plurali o con le spinte contrastanti di diversi orientamenti politici. Si veda, per esempio, la tristissima impostazione del discorso civile che porta a contrapporre un “Giorno della memoria” per le vittime della Shoah, a un “Giorno del ricordo” per le vittime delle Foibe. La “Storia” non è più storia di condottieri e di trattati, ma anche di persone. E qui la dimensione plurale, che richiede a gran voce una rappresentazione inclusiva delle componenti sociali, entra in conflitto con una dimensione necessariamente collettiva. Ma l’istanza plurale è spesso preda di appetiti strumentali, ambendo ancora, anch’essa, a massimizzarsi, a generalizzarsi, come lo era la rappresentazione del potere assoluto.
Alla ricerca, in questo dibattito tra storie da riformare e memorie da contemplare, di segni vitali che siano capaci di incidere fortemente sugli immaginari, non si può evitare di inciampare nei tanti atti dimostrativi contro il patrimonio culturale, posti a perpetrare la lunga tradizione dell’abbattimento degli idoli. Tralascerei gli atti dimostrativi per la sensibilizzazione sui problemi ambientali: la loro proiezione sul futuro e la loro profanazione del senso di intangibilità del patrimonio appare, per i nostri scopi, eccessivamente strumentale perché se ne possa fare un discorso sul senso del monumentale. Ben più radicale e definitiva appare invece l’onda del movimento Black lives matter (letteralmente, “Le vite nere contano”). Nel 2020, a Minneapolis, l’afro-americano George Floyd viene tragicamente ucciso da un agente di polizia, con metodi e pregiudiziali ritenuti politicamente rilevanti perché affetti da un razzismo sistematico e strisciante. Questo evento segna un incremento significativo in quel processo di revisione della storia e dei dispositivi di storicizzazione per valutarne la tenuta alla luce di una nuova e più aperta consapevolezza plurale.
Particolarmente plastiche sono le immagini offerte da alcune di quelle “liturgie del capovolgimento” susseguitesi a stretto giro. Per esempio, l’abbattimento della statua di Edward Colston a Bristol (2020): Colston contribuì allo sviluppo della città con i proventi ottenuti dal commercio di schiavi nel XVII secolo. Il suo monumento, dopo alcune inascoltate richieste di rimozione, è stato tirato giù nel clamore popolare e fatto rotolare nel fiume una volta per tutte. Oppure, l’imbrattamento della scultura di Winston Churchill a Parliament Square a Londra (2020): sempre sull’onda di Black lives matter, si evidenziarono le sue idee suprematiste nella politica post-coloniale inglese. Una scritta a spray nero aggiunse la postilla «was a racist» sotto l’iscrizione del suo nome sul plinto della statua. Oppure, potremmo parlare delle innumerevoli effigi di Cristoforo Colombo abbattute, spostate o messe al centro di dispute sociali: la revisione della storia del personaggio ritiene che si tratti di nient’altro che del responsabile del «peggior genocidio della storia». O, ancora, il sistematico imbrattamento con vernice rosa della scultura di Indro Montanelli a Milano, per aver sposato Destà, una ragazzina eritrea, durante la sua partecipazione alla “guerra in Abissinia”.
Ciascuno di questi radicali capovolgimenti rituali apporta ottimi, condivisibili argomenti: si tratta di istanze che la società deve assorbire, valutare, acquisire, metabolizzare nel proprio stesso interesse, come metodo di quella “auto-conservazione” attraverso la creazione e la riforma di istituti, istituzioni e rituali. Un processo la cui analisi è al centro di un bel libro come L’Europa moderna. Storia di un’identità di Paolo Viola (Einaudi, 2004), che ci spiega le ragioni dell’egemonia europea in sette secoli di storia attraverso lo sviluppo del capitalismo, dello stato complesso e proprio del pluralismo. Ciò che non torna è, forse, proprio la pretesa di assolutizzare un elemento a discapito di una generalità, per rimediare a una generalità che si impone a discapito del plurale: Colombo, Churchill, Montanelli sono davvero solo un genocida, un razzista, un pedofilo? Ha senso applicare per ciascuno di loro terminologie e morali del tutto sconosciute nei contesti in cui si sono svolte le azioni che rimproveriamo loro? E innalzare loro un monumento vuol dire forse sottoscrivere anche il genocidio, il razzismo, la pedofilia? E cosa diremmo di Voltaire, se dovessimo mettere a bilancio il suo razzismo, il suo antisemitismo e i suoi investimenti nelle navi negriere? E di Giotto, se dovessimo considerare il suo atteggiamento usuraio spietatamente speculatore e affarista? Non c’è alcuna intenzione, ovviamente, di difendere o sottacere gli aspetti controversi del pensiero e delle vite di questi, come di qualsiasi altro personaggio storico. Ci si chiede solo se non esista un modo, piuttosto, per accogliere il senso del controverso nella formulazione del concetto di monumentalità nel contemporaneo: i linguaggi sembrano più che maturi, ma la cultura cui si appella il dibattito pubblico e la velocità dei discorsi sulle reti sociali sembrano impedirlo.
Se l’abbattimento della Bastiglia è per Hugo uno degli atti fondanti della società liberale e illuminista borghese, allora ci si chiede se Duchamp e la sua Fontana (1917) non siano l’atto fondativo di un discorso più complesso e indiretto, più naturalmente incline ad assorbire le contraddizioni e le pluralità, se non gli ossimori e i paradossi, in ciò che mettiamo sui piedistalli: non più oggetti banalmente assertivi, epigrafi lapidarie che non lasciano spazio al controvertibile, ma materia linguistica viva, il cui senso negoziato non è nelle intenzioni di un potere che emana l’immagine una volta per tutte, ma nell’accoglimento che una società fa di quell’immagine, tessendoci intorno storie plurali e instabili. Atene ha costruito il nucleo della democrazia e della cultura europea; la Rivoluzione francese ha abbattuto il potere assoluto; Duchamp ha cancellato i legami deterministici che legano segno e significato, aprendo il linguaggio e le scale valoriali alla negoziazione plurale.
Talvolta si prova a sostituire la formula “arte pubblica”, che una volta avrebbe designato la dimensione monumentale urbana, con azioni relazionali che siano del tutto affrancate da forme materiali e autoriali, che si perdano e al contempo si esprimano in quell’assenza: l’arte è quella cosa che accade tra le persone, dando una forma all’impalpabile senso di comunanza che si genera mentre, pretestuosamente e liturgicamente, facciamo altro. Una forma di riflessione sul processo che trasforma in “istituzione” quelle azioni che compiamo insieme per assicurare quella continuità sociale già più volte menzionata. L’arte pubblica in chiave contemporanea ha il merito, a mio avviso, di evidenziare non uno stadio evolutivo dell’arte, ma un’invariante di tutta l’arte: ogni opera non è ciò che un artista o un contesto hanno determinato come tale, ma ciò che una comunità fa di quell’oggetto (o di quel processo, o di quell’avvenimento…) nel novero delle proprie istituzioni sociali che cambiano.
La forma del monumentale oggi non può che essere sdrucciola e fonte di imbarazzo, perché la nostra cultura, dopo cento anni da Duchamp, non sembra aver ancora assimilato l’idea che ogni segno non possa avere significati assegnati, ma si popoli degli accidenti e dei sobbalzi delle storie che gli accadono intorno. E quindi, che ogni segno possa essere riformato, riformando le connessioni di senso che lo tengono al centro di una comunità: sempre meglio di un’azione tardo-moderna e paradossale di pulizia totale, di quelle che compie solo chi ritiene di essere al culmine di un processo evolutivo, investito dal sacro compito di rimettere finalmente in sesto le cose, per tutti e per sempre. Chiunque abbia applicato questo paradigma aveva ottime intenzioni – esattamente come noi – e ciò non lo ha messo al riparo dal nostro orrore postumo.
In chiusura, vorrei riportare una serie di casi in cui la categoria del monumentale è passata attraverso azioni di hackeraggio semantico dell’idolo: in ciascuno di quei casi, la presenza sociale del monumento è stata ineluttabilmente deviata verso altri, nuovi sensi collettivi, senza per questo sminuire il monito di una sensibilità contemporanea, ma anzi ponendola al centro di una viva conversazione collettiva.
Berlino 2005: nell’ambito di un articolato dibattito pubblico sull’eredità della DDR, Lars Ø Ramberg installa sul Palazzo della Repubblica, costruito dopo la guerra sulle macerie del Castello di Berlino, l’insegna “Zweifel” (dubbio). Di colpo, quell’oggetto splendido e controverso, sembra dialogare in maniera nuova con le incertezze di quel tempo e di quel popolo. L’anno dopo il palazzo viene abbattuto definitivamente per far posto alla ricostruzione dell’edificio barocco a opera dell’architetto Franco Stella. Sempre Berlino, 1990: Christian Boltanski interviene sul vuoto lasciato dai bombardamenti in una schiera di case, conservando quel vuoto ma apponendo sulle pareti degli edifici attigui delle targhe con nomi, professioni e data della scomparsa degli occupanti degli appartamenti mai più esistenti. Latronico (Potenza), 2009: nell’ambito di A cielo aperto degli artisti Bianco Valente, Michele Giangrande installa Faro, una luce rossa pulsante che sostituisce il suono della campana del vecchio campanile del paese, che diviene così un punto di orientamento simbolico per una comunità dispersa per emigrazione ai quattro angoli del pianeta. Glasgow, anni ’80: anonimi cominciano a porre un cono stradale sulla testa di Arthur Wellesley, primo duca di Wellington, nell’effigie equestre che ne fece l’italiano Carlo Marochetti. Da quel momento l’amministrazione prova innumerevoli volte, senza successo, a rimediare o inibire quel gesto, che viene ripetutamente reiterato, fino alla sua definitiva accettazione. Milano, 1970: Christo e Jeanne-Claude “impacchettano” con il loro classico linguaggio il monumento a Vittorio Emanuele II in piazza Duomo, facendolo diventare in un attimo una presenza interrogante e controversa. Napoli, 2004: Richard Serra installa una delle sue torqued ellipses in piazza Plebiscito, e contestualmente due enormi cubi di acciaio ossidato al Museo archeologico (oggi nella collezione del Museo Madre). Piedistalli vuoti a discutere di ciò che in Italia raggiunge la soglia del tutelabile, in un paese strabordate di mute testimonianze storiche. Londra, dal 1999: The Fourth Plinth Project decide di dare un senso al “quarto plinto” di Trafalgar Square, un piedistallo rimasto sguarnito della scultura prevista dal piano della piazza. Da allora artisti come Hans Haacke, Katharina Fritsch, Elmgreen & Dragset, Antony Gormley, Marc Quinn e Mark Wallinger riportano ogni anno nel dibattito pubblico il senso della costruzione di un’immagine collettiva, pur con frequenti espedienti, ironie semplici e immediate, talvolta banalmente oppositive. Milano, 2010: Maurizio Cattelan installa la celeberrima L.O.V.E (libertà, odio, vendetta, eternità) in piazza degli Affari. Enorme mano di marmo su piedistallo, è forse un saluto romano a cui sono state mozzate tutte le dita tranne il medio, diventando, in maniera incerta e quindi vitale, sberleffo al potere fascista o finanziario in una delle piazze più connotate di Milano.
Nessuno, dopo queste azioni, può più guardare lo stesso identico oggetto-idolo così come lo avrebbe guardato prima, pur non essendo esso mutato in nulla. Di colpo, il monumento non è più il discorso autoreferenziale di un potere che si auto-rappresenta, che esclude, che mette a tacere, ma “monumentale”, pubblico, è il processo di fraintendimento, sabotaggio, corrosione, negoziazione che è avvenuto sulle spoglie del suo senso decaduto.