La nostra lirica d’amore, fin dalle sue origini, rappresenta l’amata come irraggiungibile, ritrosa, inattingibile. Il desiderio si nutre dunque dell’assenza, entro la quale l’amante non può che rivolgersi a elementi sostitutivi che colmino, almeno parzialmente e illusoriamente, quel vuoto. Anche l’innamoramento, di per sé, è un processo fantasmatico, cioè dovuto dalla phantasia, che in greco indicava l’attività con cui la mente produce immagini, corrispettivo dell’imaginatio latina, la nostra ‘immaginazione’. In un celeberrimo trattato medievale, il De amore (XII sec.), Andrea Cappellano parlava dell’amore-passione come un processo scatenato «ex visione et immoderata cogitatione» (I, 2).
Ad attivarlo era infatti la visione dell’amata, la quale era seguita da una fase caratterizzata dal pensiero continuo e ossessivo della sua versione ‘interiorizzata’. Nel processo dell’immaginazione è pienamente coinvolto anche il sogno, che, fin da Aristotele, era visto come un’attività produttrice di immagini mentali. Di fronte all’assenza dell’amata, un topos costitutivo della lirica romanza, al poeta-amante non resta quindi che rivolgersi al suo simulacro, interiore e onirico.
Esso sarebbe stato il sostituto, la copia (non sempre perfetta) della donna reale. Il sogno è solo uno degli espedienti con cui illusoriamente l’amante rivede l’amata: a fargli ‘compagnia’ troviamo anche il ritratto mentale (cioè l’immagine interiore della veglia), che spesso offre un’immagine idealizzata, perfetta, e il vero e proprio ritratto pittorico, che non pone limiti ‘quantitativi’ al possesso dell’amante, ma ha tuttavia lo svantaggio di essere inanimato e ‘bidimensionale’. Il sogno, tra tutti, è quello che garantisce la massima illusione di realtà: l’amata parla, si muove in uno scenario tridimensionale e agisce mobilitando illusoriamente più piani sensoriali, vale a dire la vista, l’udito, il tatto e qualche volta anche l’olfatto. Per contro, rispetto al ritratto mentale e a quello pittorico, ha alcuni grandi limiti: può obbedire o non obbedire all’invocazione, presentare l’amata in maniera conforme alle aspettative del poeta, o tradire quelle stesse aspettative, abbandonando il sognante troppo presto o rappresentando un’immagine dell’amata non pienamente consolatoria.
A Francesco Petrarca, nel Canzoniere (XIV sec.), possiamo associare il paradigma lirico del sogno dell’amata, destinato a fare scuola nei secoli successivi. L’uso del sogno come topos del poeta innamorato occupa infatti una parte considerevole delle sue rime in volgare, dove è anche metafora dell’inconsistenza dei desideri umani e della caducità dei beni mondani; ricordiamo, infatti, che a suggellare il senso della raccolta è appunto il verso «che quanto piace al mondo è breve sogno», che chiude il sonetto introduttivo.
Nel Secretum, inoltre, Petrarca, per mezzo di Sant’Agostino, che impersona il suo alter ego, qualificava l’amore come «extrema insania» (‘estrema pazzia’), la quale causava profondissimi turbamenti alle notti degli innamorati, tra i quali non poteva che figurare il poeta amante di Laura. C’è un’importante distinzione tra i sogni che Petrarca associa a Laura viva e quelli che invece ambienta nel periodo successivo alla sua morte.
Nel primo caso le apparizioni oniriche non fanno altro che dare risonanza notturna a quella dolorosa barriera che già divide Laura dal poeta di giorno: dimostrano, in altre parole, che il dolore dell’amante per la ritrosia e la freddezza dell’amata non ha alcuna intermittenza tra giorno e notte. Al contrario, nei sogni in cui Laura compare dopo la sua morte, ormai con lo status di ‘beata’ che ha sconfitto i peccati del mondo, lo scenario onirico è fatto di apparizioni edificanti, costruttive, in cui prevale l’elemento consolatorio: Laura giunge sulla sponda del letto e consola l’amante asciugando le sue lacrime e porgendogli la sua mano, talvolta perfino rimproverandolo per il suo inutile dolore.
La sua funzione è quindi, contemporaneamente, quella di amante e di madre, la quale non perde occasione per dare ammaestramenti morali al poeta sul prosieguo del suo ‘viaggio’ terreno, in visione della salvezza. La lirica d’amore successiva a Petrarca, com’è noto, farà del Canzoniere un punto imprescindibile di riferimento. Soprattutto nel Cinquecento, il modo di amare, di cantare, di rappresentare le passioni del poeta aretino divenne una sorta di ‘alfabeto’ di base per chiunque volesse essere riconosciuto come poeta lirico.
Va da sé che anche la rappresentazione del sogno dell’amata risentisse del paradigma offerto dall’autore trecentesco.
Tra i numerosissimi poeti moderni che trattarono, con maggiore o minore fedeltà a Petrarca, il sogno dell’amata, ci soffermeremo su un autore nato a Venosa, Luigi Tansillo (1510-1568). Le rime del poeta lucano, che rappresentarono un importante modello per poeti del calibro di Torquato Tasso e Giovan Battista Marino, trattano a più riprese il tema del sogno. In un sonetto, il 175 dell’edizione curata da Tobia Toscano (2012), che qui si cita, il poeta si rivolge al sonno (sovrapposto al sogno) affinché gli mostri l’amata meno scontrosa di quanto non sia nella realtà o che, in alternativa, presenti a lei l’immagine addolorata del poeta:
Mentre la bella e viva effige vera
tema e furor mi toglie e allontana,
corro col sonno all’ombra essangue e vana,
e per vedere il sol bramo la sera.
Quanto la viddi, ohimè, sdegnosa altiera,
tanto m’appar, dormendo, umile e piana;
onde del vero ben l’alma lontana,
cerca l’imagin sua, perché non pera.
Vien, Sonno, priego, e le mie luci ingombra,
poi che ’l suo sdegno e le mie colpe vonno
ch’oggi il mio maggior ben sia sogno et ombra.
Ma se dar luogo a te gli occhi non ponno,
qual son, carco di duol, <fingimi> et ombra,
et a chi n’è cagion mostram’ in sonno.
Fin dai primi versi il poeta sottolinea quanto sia forte il divario tra l’amata reale («bella e viva») e l’immagine che gli appare in sogno («esangue e vana»): se la prima è causa di frustrazione, perché si nega allo sguardo dell’amante, la seconda invece è invocata proprio per compensare questa mancanza. Il piacere legato alla visione onirica è sviluppato attraverso un’immagine paradossale, quella del sole (metafora tradizionale per l’amata) che appare «la sera», cioè nello scenario notturno del sogno. La comparsa notturna dell’amata è tanto dirompente da creare un metaforico capovolgimento tra il giorno e la notte: al poeta, infatti, non resta che aspettare la notte per vedere il suo ‘sole’.
Quell’ombra, anche se inconsistente, si presenta, come la Laura petrarchesca, «umile e piana» e per questo illude e al contempo consola. Lontano dal ‘vero bene’ (definizione che allude al Sommo bene filosofico, ma che qui è piegata a indicare l’amata ‘vera’, cioè in carne ed ossa), l’amante non può che accontentarsi di un simulacro, che, grazie all’illusione, gli permetterà di non morire, metaforicamente, d’amore. Nella prima terzina, alla luce delle premesse precedenti, il poeta invoca il sogno, consapevole che il suo ‘bene’ consista ormai soltanto in sogni e ombre. Così facendo, Tansillo traspone in una dimensione erotico-mondana il grande tema neoplatonico dell’ombra, che individua le forme sensibili come immagini distinte e corrotte del Sommo Bene, le quali tuttavia rendono possibile il contatto con il divino durante la vita mortale.
Come accade con il ritratto mentale, l’immagine onirica ha la funzione di sostituire l’assenza e compensare la frustrazione che ne deriva nella dimensione diurna. Il potere del sonno, però, non si limita alla creazione di un simulacro sostitutivo e illusorio: esso è potenzialmente in grado di agire sulla realtà, e per questo motivo il poeta gli chiede, in alternativa, di presentarsi all’amata e di presentarle, sempre in sogno, la propria immagine addolorata. Al tema dell’inganno, qui accennato, Tansillo ricorre ampiamente. Scostandosi da quanto accade nel Canzoniere di Petrarca, in cui le apparizioni di Laura non sono mai bollate come ‘inganno’ del soggetto, il poeta venosino sembra avere presente più che altro una tradizione che fa capo ai modelli classici.
Nelle Eroidi ovidiane, in particolare, Laodamia, tormentata dalla mancanza di Protesilao, sottolineava che il dolore si faceva sentire con più forza di notte: a quel punto, soltanto i sogni che le rappresentavano l’immagine dell’amato lontano erano in grado di risollevarla. Per questo, anche se consapevole che tutto era un’illusione, non le restava che adorare i simulacra noctis, latori di falsa gaudia, e accettarli come unico bene, in assenza di quelli veri (Her. XIII 105-109):
Aucupor in lecto mendaces caelibe somnos;
dum careo veris, gaudia falsa iuvant.
Sed tua cur nobis pallens occurrit imago?
Cur venit a verbis multa querela tuis?
Excutior somno simulacraque noctis adoro
La situazione di mancanza vissuta dall’eroina che è costretta a nutrirsi del piacere derivato dai mendaces somnos diventa una condizione pressoché costante nella lirica moderna, e il caso di Tansillo è in questo senso uno dei più esemplari. In un altro sonetto (il 273 dell’ed. Toscano), la frustrazione per il mancato ‘inganno’ del sogno porta a conseguenze estreme:
Quando il carro d’Apollo, sotto l’orme
nostre rotando, il dì ne fura e cela,
suda il volto a la terra, e l’acqua gela,
e il mondo tutto si tranquilla e dorme,
viensene il pigro Sonno in braccio a tôrme:
stanco d’udir la mia lunga querela,
di nere bende i languidi occhi vela
e ingannando mi va con mille forme.
Quante formare imagini se ponno,
mi reca in picciol tempo, e la sembianza
che più ch’altro desio, mai non m’adduce.
Va’ via, sgombra dagli occhi, ingrato Sonno,
ch’io vo’ ch’in questa acerba lontananza
il pensier mi sia sonno e cibo e luce.
Il poeta introduce il tema notturno con una lunga perifrasi a sfondo mitologico (la scomparsa del carro di Apollo, Dio del sole, con il raffreddarsi della terra), associata all’immagine tradizionale del sonno che accomuna tutti gli esseri viventi. La seconda quartina si apre con uno spostamento dal punto di vista dalla natura a quello del poeta, condotto inizialmente all’insegna dell’analogia: il sonno, stanco di udire il lamento del poeta, sopraggiunge. Questo arrivo, tuttavia, non prelude a uno stato di quiete, come avviene per gli altri viventi, poiché il sonno presenta all’amante ‘mille’ immagini ingannevoli. La terzina sviluppa l’iperbole («mille forme») della strofa precedente: il sogno produce tutte le immagini che è possibile formare in pochissimo tempo, ma tra queste nega all’amante proprio quella desiderata più di tutte.
L’amarezza che ne deriva sfocia in una cacciata del sonno che si realizza come allocuzione diretta, in una sorta di rovesciamento dell’invocazione, la quale è di gran lunga più tradizionale. La forza creatrice del sogno fallisce nella rappresentazione dell’immagine richiesta, tanto che il poeta decide di sostituirlo con una facoltà ugualmente efficace nel costruire immagini, ma più controllabile, il pensiero, il quale sarà d’ora in poi suo unico sonno (quindi sostituirà il sogno), cibo (nutrirà la sua mente) e luce (illuminerà la sua mente).
La chiusura ad effetto di questo testo si fonda quindi sul contrasto oppositivo tra sonno-irrazionale (e incontrollabile dal soggetto) e pensiero-razionale. Se all’interno dello scenario precedente il sogno era realtà ‘altra’ nella quale il poeta si rifugiava per godere di un’immagine negatagli nella veglia, o, in extremis, diveniva il mezzo con cui l’amante rappresentava all’amata dormiente il proprio avvilimento per la sua mancanza, esso diviene ora momento di ulteriore frustrazione e rivela uno dei suoi più grandi limiti, quello di non offrire sempre l’inganno sperato’.