Nell’Italia del XVII secolo, sebbene a piccoli passi, prese avvio un nuovo contesto storico, artistico e sociale, in cui alcune donne ruppero con la tradizione patriarcale della bottega d’artista e fecero della pittura il loro mestiere e il loro sogno, anche grazie alla convinta aderenza alla causa della Riforma romana. Fede Galizia (Milano, 1578 circa – 1630) fu una delle protagoniste di questa pittura “al femminile”, al fianco di Lavinia Fontana, Sofonisba Anguissola, Barbara Longhi e Plautilla Nelli.
Fede Galizia
“Tanto dunque può stile di mano feminile, che forma colorita non sol per essa al natural somiglia, ma vince, mentre imita? Ah, non sia meraviglia. Natura, autrice d’ogni cosa bella, pur è femina anch’ella.”
Giovan Battista Marino, Galeria (1619)
La data di nascita di Fede Galizia non si conosce con certezza, forse il 1574 o molto più probabilmente il 1578. Documentata con certezza a Milano dal 1587, visse la sua vita interamente dedicata all’arte, nella città lombarda fino al 1630, anno della morte, vittima probabilmente della grande peste di manzoniana memoria.
Figlia dell’eclettico Nunzio Galizia (di origini trentine), autore di raffinati ventagli in seta e piume, incisioni per libri di pregio, gioielli, abiti e miniature, si formò sin da giovanissima nella bottega paterna acquisendo nel tempo uno stile assai personale, influenzato dal Manierismo emiliano-lombardo di fine Cinquecento dei vari Correggio, Parmigianino, Lotto e Moroni. Grazie a un’abile politica di relazioni e conoscenze, riuscì ad inserirsi nella scena artistica milanese realizzando ritratti (dai quali emergerà con forza il suo naturalismo nella forte caratterizzazione fisiognomica) di importanti personalità cittadine, quali il protofisico Lodovico Settala e il letterato gesuita Paolo Morigia.
Come Elisabetta Sirani, altra pittrice e incisora della Bologna post-tridentina, anche Fede (nome programmatico nell’Europa della Controriforma) firmava le sue opere, impegnandosi a fondo nella promozione del suo lavoro, e della sua carriera; al punto che i suoi dipinti arriveranno anche alla corte di Rodolfo II d’Asburgo (ma qui fondamentale, sarà l’intercessione di un altro noto pittore, Giuseppe Arcimboldo).
In una Milano già all’epoca rinomata in tutta Europa per la raffinatezza delle sue produzioni artistiche e artigianali (in un certo senso, “ambasciatrice” del Made in Italy ante litteram), le sue nature morte, i suoi ritratti e scene bibliche, ebbero uno straordinario successo come testimoniano le diverse fonti letterarie, in prosa e in versi, che ne celebrarono le doti.
La natura morta
La celebre Canestra commissionata dal Cardinale Borromeo al Caravaggio fu l’opera che orientò Fede Galizia verso lo studio della natura morta di cui fu, precorrendo i tempi insieme alla marchigiana Giovanna Garzoni (altra pittrice e protagonista riconosciuta nell’evoluzione dell’illustrazione scientifica) una tra le più valenti interprete del genere, nel solco pittorico affermatosi in Italia sulla scia dei pittori fiamminghi.
Un genere (con un’assoluta novità in quegli anni: non più la figura umana al centro del quadro bensì l’oggetto, attraverso il quale rappresentare i tumulti dell’animo umano, l’espressione dei suoi sentimenti, delle emozioni e degli impulsi che travagliano il suo intimo), che diverrà in breve tempo richiestissimo dalla committenza privata dei ricchi borghesi di tutta Europa.
Pur rinunciando ai raffinati orpelli dei colleghi del nord, per uniformarsi alla sobrietà e severità imposte dalla Riforma romana, le sue opere non risulteranno affatto inferiori per perizia tecnica ed originalità. Nelle sue Nature, la materia pittorica diviene più densa e i tocchi di pennello più rapidi e netti , ed una sicura padronanza scenografica le permette di fare emergere in maniera straordinariamente realistica, gli oggetti dal buio alla luce.
Caratterizzati da raffinati giochi di luci e ombre, i suoi fiori e i suoi frutti appaiono spesso al limite della marcescenza, sfiorati da insetti, che nella loro funzione metaforica (pur tuttavia saldi nell’ambito di un profondo realismo) inducono ad una amara riflessione sulla caducità dell’esistenza.
L’opera “Alzata con prugne, pere e una rosa”, datato 1602 (giuntoci grazie a una replica, conservata in una collezione privata italiana), è uno dei primi e più autentici esempi di natura morta di Fede Galizia che coglie appieno le caratteristiche principali di questo genere. L’alzata centrale contiene delle prugne di vario colore, mentre la rosa adagiata sul piano è colta nel momento in cui la corolla è al massimo della sua apertura, appena prima che i petali comincino inesorabilmente a cadere. L’immagine ferma il tempo nell’istante stesso in cui la luce di quella spirituale bellezza trascolora e si disperde poi, fragile e indifesa, come la vita che passa al cospetto del precipitare del tempo.
Giuditta e Oloferne
Fede Galizia fu la prima pittrice ad affrontare il soggetto di Giuditta e Oloferne (ben prima di Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi), una delle storie dell’antico testamento di più grande impatto emotivo e fortuna in tutta la storia dell’arte occidentale.
E’ il 1596 quando dipinge (prima versione di una lunga serie) “Giuditta e Oloferne e la serva Abra”, in cui si suppone si sia anche auto ritratta.
L’artista milanese preferisce concentrarsi, piuttosto che sulla drammatica e cruenta decollazione, sul momento in cui la giovane eroina biblica esce dalla tenda porgendo la testa del generale all’ancella che la raccoglie in un bacile dorato (Caravaggio d’altronde, non aveva ancora realizzato la sua versione del tema, che diverrà poi modello imprescindibile per gli artisti successivi). Sebbene come detto, opera prima di altre cinque repliche, che Fede tenne però sempre a diversificare aggiungendo o eliminando alcuni dettagli secondo la prassi della variatio (già applicata in altre circostanze, in particolare alle sue numerose nature morte), per qualità e invenzione questa tela rimarrà uno dei massimi capolavori della sua produzione. Con una grazia tutta femminile e cura maniacale (e qui il riferimento non può che essere all’opera di Paolo Caliari, detto il Veronese, straordinario pittore del Rinascimento) Galizia indugia sulla perfetta resa delle sontuose vesti e dei preziosi gioielli della coraggiosa eroina.
La testa di Oloferne (il generale assiro al soldo di Nabucodonosor II) rimane nell’ ombra, ad emergere e risplendere nel suo lussuoso abito, è la bellissima Giuditta, simbolo di forza e di libertà contro l’oppressore, il cui volto non rivela alcuna emozione, se non una sorta di rapimento estatico per il compimento della volontà divina. Solo l’anziana fantesca con il gesto del dito sulla bocca, tradisce un inevitabile turbamento.
E con mirabili effetti ottici sulla lama saldamente impugnata da Giuditta, l’artista lascia al tempo e alla storia il proprio nome e la data.