Dialogo fra Cesare Pomarici e Silvia Camporesi
Per gentile concessione della fotografa e artista Silvia Camporesi si pubblica in anteprima un’intervista (rilasciata al curatore e scrittore Cesare Pomarici), che apparirà nel suo prossimo libro “Mirabilia“.
Cesare Pomarici:
Una delle costanti estetiche dell’evoluzione umana – e in realtà dell’intera storia naturale del pianeta Terra – è rappresentata dall’imperfezione. A partite dal clinamen di Lucrezio (De rerum natura: «piega»), fino alle «piccole deviazioni fortuite» descritte da Telmo Pievani (Imperfezione), sembra che la logica formale dei processi naturali – a livello micro e macroscopico – sia proprio quella dell’opera imperfetta. Ecco, riguardando una accanto all’altra le immagini di questo tuo singolare “viaggio in Italia”, mi sembra che una delle costanti più decisive sia stata proprio la ricerca – assolutamente non canonica – delle forme anomale del paesaggio, di un suo deficit estetico che diventa occasione contemplativa. O, parafrasando il titolo del libro, attimo di meraviglia. Ti vorrei, dunque, domandare quali sono state le premesse umane e teoriche di questo tuo percorso, e quali – se possibile – le sue rivelazioni. Quale immagine dell’Italia avevi immaginato in sede ideativa, e quale – strada facendo – hai messo a fuoco?
Silvia Camporesi:
L’idea su cui si fonda Mirabilia è nata nel 2015, mentre concludevo l’ultima parte di Atlas Italiae, serie dedicata ai paesi abbandonati d’Italia. Mentre attraversavo le venti regioni italiane, riuscivo a trovare il tempo per andare a visitare edifici bizzarri, stranezze naturali e altri luoghi simili, e mi sono resa conto della densità di siti – naturali e artificiali – degni di essere rappresentati in questo lungo racconto.
Inizialmente mi sono mossa senza una progettualità organizzata, poi ho messo a punto una ricerca strutturata e complessa, divisa per regioni, che mi ha permesso di comprendere la tipologia di lavoro che avrei voluto costruire. Dal punto di vista tecnico, per individuare i siti ho intersecato ricerche di varia natura: libri sull’argomento, siti internet e infine informazioni raccolte direttamente sul posto.
Prima di ogni viaggio ho preparato una documentazione di tutto quello che avrei desiderato vedere, oltre ad una mappatura corredata di distanze. Non sono mai partita da sola, ma sempre accompagnata da amici o familiari, perché la condivisione è una parola chiave del progetto. Chi mi ha accompagnato in questi viaggi ha compreso quanto sia importante la dimensione del viaggio in sé, più che l’arrivo nel luogo deputato.
I miei viaggi per le regioni sono stati una sfida contro il tempo basato su un’idea di celeritas: accorciare le distanze attraverso il tempo di percorrenza. I luoghi che man mano ho raggiunto li avevo già visitati attentamente su internet, osservati dal satellite, facendomi un’idea precisa di quel che avrei trovato al mio arrivo. Per questo lo scatto, come spesso accade nei miei lavori, è solo l’ultimo atto di un percorso più complesso, mentale e fisico, non immediatamente visibile.
E’ talmente poco importante che, paradossalmente, qualcun altro potrebbe premere il pulsante di scatto al mio posto. Alla fine l’Italia che avevo immaginato ha trovato una certa corrispondenza con le fotografie scattate; certo è che le immagini prodotte sono state in numero molto superiore a quelle che in conclusione ho inserito nel libro. La selezione è sempre difficile e a volte dolorosa, ho dovuto scartare fotografie alle quali ero affezionata, per la storia che racchiudevano perché, al contrario di quelle scelte, non corrispondevano ai criteri che avevo individuato nel mio percorso. Sicuramente la scelta è ricaduta su immagini di luoghi armonici o che, pur in una situazione di disordine, conservavano una certa aura di eleganza e di sospensione.
Ho condotto il progetto, con varie interruzioni, dal 2017 al 2023,: è la serie che mi ha richiesto più tempo in assoluto.
CP: Oltre ad imperfezione – nel senso estetico-naturale a cui accennavo prima – mi pare che un’altra parola-chiave del tuo progetto possa essere inquietudine. Questa dimensione, infatti, mi sembra accomunare, in una miriade di declinazioni differenti, tutte le tue fotografie che raffigurano l’operato dell’uomo dentro il paesaggio naturale. Ovverosia tutte le costruzioni antropiche, le strutture totemiche, gli edifici fantasiosi, e le “case volanti” che hai immortalato e raccolto lungo questo tuo itinerario. In tali rappresentazioni si coglie benissimo l’estro – costantemente sospeso tra «favola e mistero» – che ha animato i loro costruttori: individui visionari e folli, uomini il cui operato potrebbe essere definito – citando la Cristina Campo degli Imperdonabili – come «una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile».
Perché hai ritenuto necessaria una dimensione così fortemente fiabesca e misteriosa, in un’opera che invece si confronta con l’immagine reale e storica del nostro Paese? Cosa significa, nel tuo processo creativo, la ricerca di questi fabbricatori inquieti e delle loro cattedrali?
SC: Ho cercato una spiegazione al mio interesse per queste tipologie di luoghi e l’ho trovata leggendo un testo del fotografo americano Robert Adams, il quale dice che nelle fotografie di paesaggio sono contenute tre verità: una verità geografica, una autobiografica ed una metaforica. Riflettendo su questa frase mi sono ricordata che la geografia, nel senso più filosofico che si possa intendere, è sempre stata un argomento di mio interesse, tanto da averne fatto l’argomento della mia tesi di laurea in filosofia. E’ evidente che, in prima analisi, in questo lavoro c’è una parte importante dedicata alla stringente geografia dei luoghi, perché è una vera e propria mappatura organizzata regione per regione.
Poi Adams ci parla di ricerca che contiene un’autobiografia e queste immagini raccontano il mio coinvolgimento per tutto ciò che in qualche maniera risulta insolito, non conforme, imperfetto. Qualcosa che è nato per una bizzarria della natura, per un desiderio di grandezza di un uomo, per insolite questioni di natura religiosa, e per altri motivi simili. I luoghi sono indubbiamente affascinanti, ma non è un caso se la maggior parte di essi non è indicata nelle rotte turistiche classiche ed è proprio questo aspetto in parte sconosciuto che li rende attraenti ai miei occhi.
Da sempre nutro un grande interesse per tutto ciò che può essere definito irregolare, non canonico, estraneo a certi percorsi precisi e definiti, e a tal proposito penso sempre al titolo di una serie fotografica di Luigi Ghirri, Italia ai lati, una frase palindroma che esprime perfettamente il senso altro di questi luoghi. Adams infine ci parla di una verità metaforica e qui entriamo nella parte che più mi interessa.
Avrai notato che in queste immagini mancano la presenza umana e i riferimenti temporali. Il titolo è Mirabilia, quindi l’obiettivo è generare nello spettatore la sorpresa, la meraviglia, ma di fatto la bellezza di questi luoghi, raccontati nella loro estrema solitudine, porta con sé un senso di spaesamento e quindi di inquietudine. La bellezza è anche inquietudine, perché rimanda a qualcosa d’altro che non è immediatamente visibile. E più il luogo appare fermo, impassibile, privo di presenze intorno, più sembra esprimere questo aspetto di bellezza estraniante, che sorprende ma che in qualche modo spaventa.
L’aspetto metaforico risiede proprio in questa volontà di andare oltre la visione retinica per condurre ad una riflessione sul “cosa cerchiamo quando ci allontaniamo dalle nostre case”? Di fonte alla perfezione speculare della Biblioteca Malatestiana, così come al piccolo fuoco-vulcano che brucia ininterrottamente da almeno 500 anni, proviamo meraviglia ma anche un forte senso di smarrimento che ci riconduce alla nostra condizione umana. Siamo lì, ma siamo anche altrove, il nostro sguardo è fisso davanti a quella veduta, ma contemporaneamente andiamo oltre.
Allora è evidente che questi luoghi per me funzionano come aperture su paesaggi interiori, molto articolati e complessi, da raggiungere attraverso l’immagine e tutto il percorso fatto per arrivare fin lì. Ricordo all’università un esame di logica per il quale studiai un libro che nel frontespizio recava questa frase: “con questo libro è me che voglio rimettere a posto”.
Fotografare è innanzitutto una forma di messa in ordine, una modalità di controllo del reale e anche io, attraverso questi progetti, credo di rimettere a posto qualcosa dentro di me. Come noti giustamente, dentro alla serie c’è un capitolo dedicato a quelli che l’antropologo Gabriele Mina ha individuato come “Costruttori di Babele”; artisti irregolari, spesso senza titoli di studio, che hanno prodotto opere a dir poco sorprendenti (come la casa volante, l’appartamento a forma di donna, il mappamondo più grande del mondo, il giardino della galassia ecc..). Seguendo la mappatura di Mina sono andata ad ascoltare le storie di questi personaggi e a fotografare le loro opere: sono produzioni che normalmente rimangono nelle proprietà private dei loro ideatori, ma c’è in loro un grande desiderio di riscatto, di riconoscimento, e questo aspetto è toccante perché per me esprime un’idea romantica di imperfezione. I Costruttori di Babele sono completamente aderenti alla mia idea, sono la massima espressione di come un’utopia possa diventare realtà, di come bellezza, inquietudine, imperfezione e una certa dose di follia si intreccino creando un’espressione umana assolutamente unica, che sfugge a tutte le possibili classificazioni artistiche.
CP: Imperfezione e inquietudine sono due parole accomunate dallo stesso prefisso latino, «in-», ossia dalla comune propensione a rilevare qualcosa di “interno”, di “nascosto”, verrebbe da dire – utilizzando altri due termini caratterizzati dallo stesso prefisso – qualche cosa di “intimo” e “inaccessibile” ad uno sguardo disattento. Certi luoghi di questo progetto, addirittura, si trovano all’interno di proprietà private o di ambienti chiusi, e dunque necessitano di un surplus di relazioni umane, di informazioni confidenziali e autorizzazioni per essere visitati. Ebbene, alla luce di tutto questo e di quanto hai già affermato nel corso di questo colloquio, ciò che ti vorrei chiedere ora è: qual è il tuo rapporto di fondo con l’immagine, che tipo di soggetto iconografico è quello che cerchi e raffiguri?
SC: Intimo, inaccessibile, nascosto, aggiungerei sommerso. Sono gli indicatori che muovono il mio interesse verso i luoghi. C’è una forma di solitudine nella fotografia, perché chi scatta compie delle scelte e lo fa solitamente da solo, anche nel caso in cui il soggetto di fronte alla macchina fotografica sia un’altra persona. Io ho deciso di assolutizzare questa forma di isolamento, scegliendo come soggetti per le mie immagini luoghi poco noti, tendenzialmente non semplici da raggiungere ed evidentemente poco frequentati. Le relazioni umane, le informazioni e tutta la parte organizzativa necessaria per raggiungere i luoghi fanno parte dell’essere persona, non dell’esperienza fotografica, e per questa ragione non mi pesano. Col passare degli anni mi sono resa conto che la fotografia è un’esperienza che consente al fotografo di mettere ordine nel caos della visione. A questo aggiungo una riflessione sull’immaginazione, poiché mi concedo la libertà di modificare le fotografie, fino a che non coincidono con la visione che ho di quei luoghi.
Questo significa, ad esempio, ricostruire un luogo in miniatura e fotografarlo come fosse reale, perché per qualche ragione quel luogo nella realtà è diventato irraggiungibile (mi riferisco alle serie dedicate alla ricostruzione in miniatura di Fabbriche di Careggine, del bosco bianco di Antonioni e dell’Isola delle Rose). La ricostruzione così come la messa in scena dei luoghi è una modalità molto più complessa, perché prevede altre competenze rispetto al “semplice” scatto, ma una volta esposti in mostra, i due tipi di immagine per me hanno lo stesso peso, lo stesso valore. Io sono interessata a luoghi non eclatanti, che una volta raggiunti manifestano una visione inedita; è di secondaria importanza se per ottenere quella visione io debba intervenire più o meno significativamente.
Penso alla fotografia come ad una possibilità e come tale è mia intenzione tenderla in varie direzioni, mettendo alla prova la sua abilità rappresentativa e la mia capacità di sfruttarla. Le nuove tecnologie, l’intelligenza artificiale, il web, sono solo alcune delle possibilità che sembrano minare la sua originale autenticità e che invece, a mio parere, ne aumentano esponenzialmente le sue possibili declinazioni. Per rispondere in definitiva alla tua domanda: io non cerco immagini autoportanti, cerco strutture di pensiero che possano in seguito essere confezionate nella forma di immagini. In questo senso la fotografia è un mezzo inesauribile.