Forse è proprio giusto definirle così, al plurale: “memorie”. Un solo evento viene infatti, dall’uomo che lo rievoca, nel tempo ricostruito, rivisitato, a volte del tutto modificato rispetto all’originale sequenza dei fatti. Si può dire allora che ricordare è quasi sempre un gesto – involontariamente, ma pericolosamente – menzognero, un reinventare una visione mai davvero uguale a quella avuta la volta prima.
Più ci si allontana nel tempo dal fatto da ricordare, infatti, più è facile che si riescano a richiamare alla mente dettagli falsati dall’accumulo di informazioni ed esperienze che nel frattempo si sono andate a sovrascrivere su quel ricordo.
Nella mitologia greca, la memoria viene impersonata dalla titanide Mnemosine. Figlia di Gea e Urano (la terra e il cielo), a sua volta madre delle Muse, la memoria è intesa da sempre come il bacino fondante delle varie forme che può assumere l’espressione umana: la poesia, la musica, il teatro – ci dice l’uomo ellenico – sono frutto di Mnemosine, della facoltà umana di conservare dentro di sé, stratificate, tracce del proprio vissuto per poterle trasfigurare in nuove forme che conservino la verità divina da cui derivano.
Nel 1930 Herman Hesse pubblicò uno dei suoi capolavori più noti, “Narciso e Boccadoro”: a un certo punto della vicenda, Boccadoro, lasciato il convento per intraprendere un percorso di conoscenza indipendente e libera attraverso l’esperienza diretta col mondo reale, si imbatte nel maestro Niklaus, intagliatore di legno.
Boccadoro, interessato ad apprendere i segreti di quell’arte, ospite del maestro, una sera comincia a disegnare il bozzetto di quella che sarà la sua prima opera, un San Giovanni: “[…] un’altra immagine cominciò a delinearsi nella sua anima e a diventare visibile, […] e quest’immagine era tutta d’un pezzo, senza contraddizioni […]. Era l’immagine del suo amico Narciso. […] Da allora, da quando s’era staccato dal convento, non aveva mai visto l’amico con tanta chiarezza, non aveva mai posseduto in sé così completa l’immagine di lui.” Boccadoro intaglierà nel legno dunque il suo ricordo, ora vividissimo, di Narciso, richiamato alla mente in una visione perfetta e totalmente lucida.
Dentro la memoria si annida gran parte delle visioni che tornano all’uomo anche quando non le cerca direttamente. Anche questo è ricordare, ci dice Hesse: l’atto involontario di trovarsi di fronte ai fantasmi di ciò che si credeva aver per sempre abbandonato.
Nel breve passo dedicato alla scoperta creativa di Boccadoro, il momento legato all’incontro virtuale coi lineamenti dell’amico lontano è tratteggiato al pari di un gesto rituale: “Come un atto d’offerta eseguiva il compito che gli era toccato, che il suo cuore gli aveva imposto: innalzare l’immagine dell’amico e conservarla così. […] Sentiva l’opera sua come il pagamento di un debito, come un ringraziamento.”
Nel legno prende forma l’idea esatta di Narciso che il ricordo ha generato in Boccadoro (si badi al riferimento al cuore, contenuto nell’etimologia latina della parola ricordare) e solo intagliando, scalfendo il pezzo di legno, il ricordo può diventare il simbolo votato all’eternità che è l’opera d’arte. Boccadoro scolpisce ciò che ha rivisto dentro di sé, tornato a lui dal passato per acquisire d’un tratto un nuovo senso, nel nuovo nome di San Giovanni. E’ dunque un avvento fulmineo ciò che avviene di sperimentare quando la memoria viene lasciata a briglia sciolta, come pure una necessità, quella di dover dire e far vedere a propria volta quello che si ha visto.
La fotografia è da sempre, in ogni ambito, l’arte più frequentemente accostata al concetto di memoria, data la sua congenita funzione di registrare ciò che colpisce la pellicola o il sensore passando attraverso la lente del suo occhio meccanico. Anche, o soprattutto, quando significa conservare un segno di ciò che irrimediabilmente scomparirà, la fotografia trattiene dentro di sé ogni passaggio materiale di tutte le epoche che l’hanno finora attraversata; città ormai disperse, trasformate totalmente, e per questo sempre sconosciute. Esiste il lavoro di una fotografa, Helen Levitt, grande nome della street photography americana e definita “la più importante fotografa sconosciuta della sua epoca” che nella New York degli anni ‘30 e ‘40 puntava l’obiettivo nella direzione dei bambini dei quartieri più poveri, come Harlem e Brooklyn.
Nello specifico, nel periodo compreso tra il 1938 e 1948, i disegni che quei bimbi tracciavano col gessetto su muri e marciapiedi affascinò talmente la fotografa da far confluire le più di duecento immagini del lavoro in un libro intitolato “In the street – Chalk Drawings and Messages”[1](“In the street” è anche il titolo del cortometraggio che girò insieme allo scrittore James Agee nel 1941[2]). Attraverso la fotografia, Helen Levitt registra i segni che l’infanzia newyorkese deposita sull’asfalto, sogni e fantasmi, destinati a durare a volte forse meno di un giorno, cancellati dalla prima pioggia. La memoria può dunque essere il potere conservativo di ciò che è esistito per pochissimo tempo, mentre la fotografia assicura un luogo riparato a quei segni, nati già morenti.
L’evento della fotografia, in particolare il lavoro di Helen Levitt, è speculare rispetto all’opera di Boccadoro: il ricordo di Narciso si fissa potenzialmente per sempre nel legno intagliato dalle mani dell’artista; i disegni fatti col gesso dai ragazzini a New York, destinati a vita brevissima, possono essere consegnati all’eternità solo grazie all’atto fotografico in grado di congelarne la traccia, la linea bianca sulla pietra. Memoria, allora, può voler anche dire a un tempo evocare e salvare; farsi trovare quando un fantasma bussa alla porta e dare uno spazio a un segno destinato a scomparire troppo presto, come un nome scritto sull’acqua.
I graffiti passeggeri dei bambini immortalati dalla Leica di Helen Levitt parlano una lingua “archetipica e magica” come lei stessa definiva quella dimensione fatta di significato e astrazione a cui i fanciulli possono accedere con facilità estrema, come i primitivi padri del segno: vedendo infatti l’essere disegnato con la corona fluttuante e due pupille per occhio[3], ci accorgiamo che un diverso mondo sta provando a sfiorarci, ad apparirci come un ricordo lontano e ora di colpo chiarissimo, come quando guardiamo le incisioni rupestri; come quando il viso di Narciso appare a Boccadoro.
E’ sempre il richiamo di una dimensione che non ci appartiene più e quindi aliena e sconosciuta; l’atto del ricordo è un nuovo intreccio tra piani che non si stavano ancora toccando. In questo la fotografia diventa il mezzo emblematico, il codice per congiungere i mondi: è curioso infatti che agli albori della sua scoperta venne usata per confermare l’esistenza degli spiriti, alimentando credenze già radicate nella cultura europea, specialmente britannica; e che Honoré de Balzac, venuto a conoscenza del meccanismo fotografico, formulò la sua nota “teoria degli spettri”, in cui, diceva, ogni volta che si veniva ritratti in fotografia si staccava una delle molte “pellicole” (o spettri, appunto) di cui l’uomo è composto.
Ma al di là delle coincidenze, il gesto salvifico di Helen Levitt (nota ora per lo più per le sue immagini a colori, accostate spesso alle opere di Saul Leiter) è quello di voler catturare il passaggio rapidissimo di un gesto ritenuto per un momento essenziale dal suo autore, disegnare un mostro o lasciare un messaggio, magari con lo spelling sbagliato[4], anche solo per un giorno.
Ogni memoria è dunque sempre madre di una visione, di un’apparizione pronta a scomparire in un attimo e allo stesso tempo a essere trattenuta in eterno. L’artista non è diverso dal bambino, il San Giovanni da un piccolo mostro: per poter esistere, la visione del ricordo ha bisogno di incarnarsi, diventare materia, farsi oggetto vero da toccare; e il legno dunque non è in alcun modo diverso dal gessetto.
E la fotografia, quando usata come strumento conservativo, ci dice Helen Levitt, è l’ennesima traccia, il lucchetto dello scrigno in cui lì racchiusi possono continuare a vivere i fantasmi.