Pienamente consapevole dell’eccezionale sforzo poietico che dovrà affrontare nel narrare agli uomini il suo viaggio ultraterreno, Dante, al principio di ogni cantica, come impone una lunga consuetudine della poesia epica classica, invoca le Muse (Inf. II, 7 O muse, o alto ingegno, or m’aiutate; Purg. I, 8 o sante Muse, poi che vostro sono) e il dio Apollo (Par. I, 13), chiedendo loro sostegno e ispirazione per riportare in versi ciò che la sua memoria ha raccolto. Che si tratti di una poderosa operazione della mente, per la quale è d’uopo richiedere l’assistenza divina, il poeta lo ripete più volte, come al principio del canto XXXII dell’Inferno (vv. 10-12):
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
L’invocazione alle Muse non è però un semplice usitato stilema che Dante ritrovava nell’Eneide o nella Tebaide, ma va interpretato come una spia del senso profondo del poema. Come è noto, infatti, le nove Muse, dee protettrici delle arti, sono figlie di Zeus e Mnemosyne, ossia la Memoria. Il termine Musa è etimologicamente connesso al verbo greco μαίνω, che significa “avere il pensiero fisso a qualcosa” (da cui anche “mania”): simbolicamente ciò significa che la memoria è la sola garante dell’arte, la cui funzione è “eternatrice”, per dirla con Foscolo, di valori etici ed estetici proprio in virtù del patrocinio offerto dalla memoria.
Ma c’è di più. La Divina Commedia si configura nella sua interezza come un lungo poema della memoria, o più precisamente delle memorie. Innanzitutto, essa è in effetti una narrazione retrospettiva in cui il poeta richiama alla mente tutto ciò che ha visto e sentito nelle varie tappe del suo viaggio tripartito, nelle quali ha incontrato e dialogato con decine di personaggi. Ovviamente il ricordo dell’esperienza oltremondana diventa più difficile quando il pellegrino deve novellare ciò che ha vissuto nel Paradiso.
È qui che Dante avverte l’insufficienza delle facoltà umane, le quali riducono la loro capacità sia di comprendere i fenomeni che avvengono nelle sfere celesti, sia di richiamarli alla mente successivamente (Par. XVIII, 8-12):
qual io allor vidi
ne li occhi santi amor, qui l’abbandono:
non perch’io pur del mio parlar diffidi,
ma per la mente che non può redire
sovra sé tanto, s’altri non la guidi:
E qualora la memoria fosse dotata di poteri eccezionali, Dante avverte l’inadeguatezza del linguaggio umano per tradurre a parole tali esperienze (Par. I, 70-71):
Trasumanar significar per verba
non si poria.
Chiaramente, Dante si rifà alla lezione di sant’Agostino e dei mistici come Riccardo da San Vittore, il quale affermava (De gratia contemplationis V 2) che nello stato alienato della visione mistica “quamvis inde aliquid in memoria teneamus, et quasi per medium velum et velut in medio nebulae videamus, nec modum quidem videndi, nec qualitatem visionis comprehendere, vel recordari sufficimus” [ossia: quando la mente è in estasi non siamo in grado di comprendere la qualità della visione né siamo in grado di ricordarla]. La ripetuta richiesta di aiuto alle Muse si giustifica pertanto anche per questa consapevole riduzione delle facoltà sensoriali e intellettive dell’uomo nel regno di Dio (cfr. Epist. XIII, 78). Quasi al termine del suo viaggio, Dante è costretto a confessare che davanti a Dio (Par. XXXIII, 55-57):
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar nostro, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
La visione del Sommo Artefice necessita di un inspiegabile potenziamento (“maggio”) della capacità di vedere, così come il tentare di ricordare una tale esperienza costituisce un’offesa (“oltraggio”) alle nostre umane facoltà, infinitamente più deboli e imparagonabili dinnanzi alla potenza divina. Della visione di Dio a Dante non resta praticamente nulla, la sua memoria è annichilita, permane solo nel suo cuore una grande sensazione di dolcezza, la stessa che aveva provato quando aveva visto Beatrice e non era riuscito a dare un nome a quel sentimento forte che lo sconvolgeva (Par. XXXIII, 61-63):
quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
La memoria intellettiva cede il passo a quella emotiva: nulla è spiegabile, ma quello che si prova rimane indelebilmente dentro di noi (lo stesso concetto ancora in Par. XXXIII, 91-93: la forma universal di questo nodo / credo ch’i’ vidi, perché più di largo, / dicendo questo, mi sento ch’io godo).
D’altra parte, un poema della memoria avrebbe molto meno da raccontare se non poggiasse largamente sulle memorie personali delle innumerevoli comparse che con Dante si confessano, rimuginano, litigano, bestemmiano, imprecano, piangono, pregano, si pentono e persino si preoccupano della fama lasciata sulla Terra. La memoria di sé che ciascun personaggio riversa nel suo incontro con il poeta non è semplicemente una memoria del passato, ma ha lo scopo, poiché la Commedia è opera didascalico-paideutica, di arrecare beneficio al futuro degli uomini: spetta a noi far tesoro di ciò che Dante ha raccontato, se vogliamo restituire spiritualità e santità alle nostre esistenze. Come le Muse sono custodi delle arti, così la Commedia serba memoria delle memorie dei suoi protagonisti.
Tale concezione della Commedia come poema della memoria e delle memorie può forse giustificare la tradizionale maggiore popolarità dell’Inferno, e in seconda istanza, del Purgatorio, nei confronti del più dottrinale e astruso Paradiso. I primi due regni sono infatti i mondi in cui il legame con l’umano è ancora molto forte, poiché le anime non si sono distaccate dal loro vissuto terreno: nel Purgatorio lo guardano con una certa obiettività e nella consapevolezza che alla fine approderanno in Paradiso, ma nell’Inferno sono ancora immerse nella pienezza dei sentimenti e delle passioni che hanno caratterizzato, in maniera deleteria e peccaminosa, le loro vite. Per i dannati, le memorie personali continuano a operare prepotentemente nei pensieri e addirittura nei gesti che perpetuano tra le pareti infernali: si pensi, solo per citare qualche esempio, al conte Ugolino che è intento a rosicchiare il cranio dell’Arcivescovo Ruggieri, o al ladro Vanni Fucci che impreca contro Dio, o a Bocca degli Abati o Filippo Argenti, che addirittura litigano con Dante fino ad arrivare allo scontro fisico. Nel Paradiso, per ovvie esigenze narrative, non mancano i ricordi e le memorie del passato che animano i racconti dei beati, ma tutto è trasfigurato dalla luce della grazia beatificante o amplificato in prospettiva meta-esistenziale e meta-storica (si pensi al grande racconto della storia di Roma enunciato da Giustiniano nel celebre canto VI). La dimensione privata e personale della memoria viene meno nel terzo regno, contestualmente, come abbiamo visto, alla memoria del poeta.
Se la Divina Commedia è quindi anche un poderoso libro di memorie, una raccolta di esperienze ed esistenze snocciolate in forme e contesti differenti e che racchiudono tutta la varietas dell’essere umano, la memoria stessa per Dante è concepita come un libro. Rinverdendo una riuscita metafora di ascendenza classica e biblica, già nella Vita Nova (I, 1) il poeta scriveva: “In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova”. Si tratta di una immagine antichissima, rintracciabile nella letteratura greca (Pindaro Olym. X, 1 ss., Eschilo, Prom. 786-789, Platone Theaeth. 191 c-d ecc.), ma che si era diffusa molto nel Medioevo anche grazie al largo impiego nella Bibbia (Geremia 17.1, Seconda Lettera ai Corinzi 33 ecc.). Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae spiegava (I 24, 1): “dicitur autem metaphorice aliquid conscriptum in intellectu alicuius, quod firmiter in memoria tenet”, e citava in proposito un passo del libro biblico dei Proverbi [3, 3]: “describe illa in tabulis cordis tui” [“scrivile nelle tavolette del tuo cuore”], glossando: “nam et in libris materialibus aliquid conscribitur ad succurrendum memoria”. Dante utilizza spesso questa immagine metaforica della mente o della memoria come libro (Inf. II 8, XV 88, Par. XVII 91, XXIII 54), la quale si alterna con l’immagine della memoria assimilata alla cera impressa dal sigillo, come in Purg. XXXIII 79-81: Sì come cera da suggello, / che la figura impressa non trasmuta, / segnato è or da voi lo mio cervello (cfr. Purg. X 45, XVIII 38-39, Par. I 23-24, II 132, XXIV 143).
Per raccogliere nel libro della sua memoria tutto quel materiale immenso che costituisce la diegesi della Commedia, nonostante nella finzione poetica Dante dichiari che la sua memoria in Paradiso era stata fortemente limitata, il nostro poeta, come è universalmente riconosciuto, doveva essere dotato di una memoria prodigiosa. Ed è ormai acquisito dalla critica dantesca il fatto che le opere dantesche siano infarcite di autocitazioni formulari, a volte agenti in maniera preterintenzionale “sotto la stessa soglia della coscienza”, come non mancò di evidenziare il famoso critico Gianfranco Contini, una sottile trama di richiami verbali e rimandi interni che non fanno leva solo su un prontuario poetico fonico-ritmico, ma si caricano di profonde significazioni concettuali. Basti pensare al bellissimo emistichio “come altrui piacque”: nel finale del canto XXVI dell’Inferno l’espressione, che suggella il racconto di Ulisse, esprime la volontà di Dio di punire il “folle volo” di coloro che hanno oltrepassato i limiti imposti agli uomini (Inf. XXVI, 141-142: e la prora ire in giù, com’altrui piacque, / infin che ’l mar fu sovra noi richiuso); nel Canto I del Purgatorio, quando Dante strappa dalla spiaggia un giunco che miracolosamente rinasce, le stesse parole assumono un significato opposto, volendo esprimere il consenso che Dio ha concesso al viaggio di Dante e alla sua comprovata umiltà di pellegrino in cammino verso la sua agognata rinascita spirituale (Purg. I, 133: “quivi mi cinse sì com’altrui piacque”). La formula è pertanto intenzionalmente utilizzata da Dante due volte, con sottile ma evidente paragone tra chi si è accostato al Purgatorio senza la grazia divina (Ulisse) e chi vi è invece approdato con i favori della divinità, guadagnati sul campo attraverso il cammino infernale (Dante).
Noi moderni possediamo mediamente una memoria meno performante di quella dantesca, eppure in un passato relativamente recente gli anziani toscani erano in grado di recitare a memoria l’intero poema. Oggi questo culto della memoria è svanito, ma sono tantissimi i versi del poema che sono divenuti così famosi da risultare proverbiali o idiomatici: versi come “ché perder tempo a chi più sa più spiace” (Purg. III, 78), “non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (Inf. III, 51), “amor che a nullo amato amar perdona”, (Inf. V, 103), “ahi serva Italia di dolore ostello” (Purg. VI, 76), costituiscono ormai un repertorio di formule così abusato che talvolta diventa abituale la citazione in una forma popolare e non originale: invece di “non ragioniam di loro”, è infatti oggi comunemente diffusa la variante “non ti curar di lor”.
Tuttavia, la facilità con cui si ricordano molti versi danteschi è dovuta al grande supporto svolto dalle immagini: sono proprio le immagini ad aiutare quella che impropriamente chiameremmo “memoria visiva”. Tutta la legge del contrappasso imperante nell’Inferno ci aiuta a creare figurazioni e rappresentazioni che si imprimono immediatamente nella nostra mente, come i lussuriosi sbattuti dalla tempesta della passione o i suicidi trasformati in piante. Rischieremmo di banalizzare impropriamente la poesia dantesca se la paragonassimo ad un tweet o ad una didascalia da social media, ma Dante spesso riesce a cogliere la potenza delle immagini in una sola terzina, come nella presentazione del conte Ugolino (Inf. XXXIII, 1-3):
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’capelli,
del capo ch’elli avea di retro guasto
Il risultato è un ritratto pregnante e indimenticabile, stampato nella nostra memoria per sempre da 700 anni, ben diverso da una “storia” sui social che dura esattamente 24 ore.
Il supporto visivo per aiutare la memoria non è solo utile ai lettori della Commedia per orientarsi tra le pene dei vari gironi infernali, ma era un mezzo che Dante immaginava operante anche per le anime penitenti. Basti pensare che nel canto XII del Purgatorio, Dante ci descrive gli altorilievi e le formelle marmoree intagliate sul costone della roccia che aiutano i purganti a rinnovare lo spirito dell’umiltà (l’arcangelo Gabriele con la Madonna, Davide innanzi all’Arca Santa, Traiano e la “vedovella” cui hanno ucciso il figlio) e parimenti i bassorilievi sul pavimento che rammentano alle anime le punizioni cui va incontro la superbia (Lucifero, Briareo, Nembrot, Niobe, Saul, Ciro e Oloferne). In queste raffigurazioni, tanto realistiche da lasciare il poeta estremamente affascinato, la memoria visiva si eleva a diventare un “visibil parlare” (Purg. X, 95), proprio come le parabole narrate da Gesù contribuivano in maniera più efficace a imprimere nelle menti dei suoi discepoli i suoi insegnamenti.
Alla luce di queste considerazioni, l’altissimo ruolo che Dante attribuisce sia alla memoria, intesa come facoltà intellettiva, sia alle memorie delle storie umane, proprie di una singola esistenza ma elevate ad exempla universali, sia oggi un monito per tutti noi, membri di una civiltà contemporanea progressivamente “smemorata”. Tristemente persuasi da una improvvida moda pedagogica che ha svalutato sempre più il senso della memoria e dell’imparare a memoria, incentivati, per proteggere la nostra fragilità interiore da ansie e angosce, a dimenticare piuttosto che a ricordare (secondo quel meccanismo di difesa psichica noto come “rimozione”), abituati a demandare ad un profilo social ciò che riteniamo degno di ricordo, postando contenuti che durano un giorno per poi essere archiviati, corriamo il rischio di dimenticarci non solo del passato, ma addirittura del presente. Dismesso ormai l’imperativo socratico-platonico per cui conoscere si indentifica con ricordare, preferiamo considerare il passato una tabula rasa, privo di valore o degno di censura: cosa sono la cancel culture e il revisionismo culturale se non espressioni di una civiltà senza memoria, che preferisce riscrivere il passato secondo le mode del momento piuttosto che studiarlo con onesta coscienza storica scevra da ogni tendenziosità?
Ben vengano le giornate della memoria, del ricordo, dei nonni, degli alberi e delle malattie, purché non divengano stanchi e ripetuti rituali di una memoria sonnacchiosa e spenta, assuefatta alla ricorrenza, e non invece costante e corretto esercizio di crescita etica e spirituale. Per questo motivo, la Divina Commedia ci esorta ogni giorno a risfogliare il libro della nostra memoria, non un semplice archivio da lasciare impolverare, ma, come per i penitenti del Purgatorio, un mezzo di continuo sforzo di rinnovamento personale: perché chi non ha memoria nel presente, non avrà memorie nel futuro.