Diversamente dal passato, nel tempo presente non esiste un legame esclusivo tra generazione umana ed esercizio della sessualità tra un uomo e una donna. Com’è ben noto, oggi è possibile venire al mondo non solo a seguito di un atto naturale di concepimento, ma anche attraverso l’impiego di una delle varie tecniche di procreazione medicalmente assistita. E così, il sogno di diventare genitori, il più umano e ancestrale che ci sia, può altresì diventare realtà grazie all’aiuto di «mamma scienza».
Sul piano del diritto, molte e di grandissimo peso sono le questioni suscitate dall’accesso diffuso alle tecnologie procreative; questioni che tendono ad acuirsi nelle ipotesi di fecondazione eterologa, ossia quelle contraddistinte dall’utilizzazione di materiale genetico (gamete maschile e/o femminile) in tutto o in parte estraneo alla coppia.
Nell’orbita della fecondazione eterologa s’inscrive l’argomento specifico di queste note, dedicate alla rilevanza giuridica della cosiddetta “genitorialità intenzionale”.
In chiave operativa, il tema si traduce in due interrogativi conseguenziali:
- se e a quali condizioni il partner del genitore biologico, che abbia condiviso il progetto procreativo, sia obbligato – pur in assenza di un legame genetico – a mantenere, educare, istruire e assistere moralmente il nato;
- se e a quali condizioni il genitore d’intenzione sia titolare della «responsabilità genitoriale», espressione compendiosa che vale a designare quel complesso di poteri che sono funzionali al mantenimento, all’educazione, all’istruzione e all’assistenza morale del minore.
A tali quesiti, la nostra legislazione positiva sembra fornire risposte inequivoche soltanto in un caso, quello in cui sia una coppia composta da persone di sesso diverso (coniugate o conviventi) ad avvalersi di tecniche di fecondazione assistita di tipo eterologo. Alla fattispecie in questione, infatti, sono sicuramente applicabili le disposizioni dettate dagli articoli 8 e 9 della legge n. 40 del 2004, secondo cui i nati «hanno lo stato di figli della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche» di procreazione medicalmente assistita, senza che dopo il parto siano ammessi ripensamenti. Tant’è che il padre d’intenzione «non può esercitare l’azione di disconoscimento di paternità […], né l’impugnazione» del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità; mentre la donna partoriente «non può dichiarare la volontà di non essere nominata» nell’atto di nascita.
Si tratta, a ben riflettere, di un congegno normativo volto a inchiodare gli adulti alle responsabilità genitoriali che discendono dalla cosciente condivisione di una scelta, in ossequio al principio espresso dal prezioso latinetto giuridico «nemo potest venire contra factum proprium».
Una cappa d’incertezza, invece, incombe sulla possibilità di applicare le regole sopra richiamate ai casi in cui siano coppie dello stesso sesso ad accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita; pratica non consentita in Italia stante i perduranti divieti di fecondazione eterologa per le coppie di donne e di maternità surrogata (anche, ma non soltanto, per le coppie di uomini).
Accade spesso, allora, che cittadini italiani si rechino all’estero. Mete preferite di questa sorta di “turismo procreativo” sono quei Paesi dove la legislazione consente, tra l’altro, di formare un atto di nascita dal quale risultano come genitori entrambi i componenti della coppia «che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche», senza alcuna distinzione tra il genitore biologico e/o genetico e quello d’intenzione.
Così, a onta di ogni proibizione domestica, vi sono in Italia bambini con due madri o due padri: bussano alla porta dei nostri giudici che di certo non possono fingersi sordi. Semplificando all’estremo, il panorama attuale delle soluzioni interpretative offerte dalla giurisprudenza maggioritaria può essere così tratteggiato.
Per i figli concepiti all’estero in attuazione di un progetto di procreazione eterologa maturato all’interno di una coppia di donne, si tende a distinguere in ragione del luogo di nascita. Più in dettaglio, se il parto è avvenuto all’estero, l’atto di nascita (con indicazione della doppia maternità) formato secondo le regole del Paese straniero può essere integralmente trascritto nei registri dello stato civile italiano. Afferma a questo proposito la Cassazione, con orientamento ormai consolidato, che «è legittimamente trascritto in Italia l’atto di nascita […] relativo a un minore, figlio di madre intenzionale italiana e di madre biologica straniera, non essendo contrario all’ordine pubblico internazionale il riconoscimento di un rapporto di filiazione in assenza di un legame biologico, quando la madre intenzionale abbia prestato il consenso all’impiego da parte della partner di tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo, anche se tali tecniche non sono consentite nel nostro ordinamento» (sentenza n. 23319 del 2021).
Diversamente se il parto è avvenuto in Italia, lo stato giuridico di figlio dev’essere costituito sulla base delle regole ivi vigenti che riconoscono la sola donna partoriente come madre: pertanto non può essere legittimamente formato un atto di nascita che indica quale madre del bambino anche colei che con la donna partoriente ha condiviso la decisione di ricorrere alla fecondazione assistita. Fermo restando, precisano i Supremi giudici, la possibilità di formalizzare ex post la relazione con il genitore d’intenzione, grazie al ricorso a una particolare tipologia di adozione (ordinanza n. 22179 del 2022).
Nessun sottile distinguo, invece, riguarda i nati attraverso la pratica della maternità surrogata, in esecuzione cioè di un accordo con il quale una donna s’impegna a portare a termine una gravidanza per conto di altri. Per questi nati, infatti, il “niet” delle Sezioni Unite è pressoché totale: un atto di nascita redatto all’estero da cui risulti, nei casi di maternità surrogata, come genitore anche quello d’intenzione, non può essere ritenuto efficace in Italia; giacché la maternità surrogata, «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», ponendosi così in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento. Tuttavia, poiché il bambino nato da maternità surrogata è “altro” rispetto alla tecnica impiegata per generarlo, si riconosce la possibilità di formalizzare il rapporto con il genitore d’intenzione «attraverso l’istituto dell’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d)» (sentenza n. 38162 del 2022).
Tra parentesi, nelle ipotesi in cui si indica la strada succedanea dell’adozione, non si dà rilievo all’iniziale condivisione del progetto procreativo (cioè alla «volontà di ricorrere alle tecniche»), ma alla successiva e solo eventuale instaurazione di «un legame sorto in forza del rapporto affettivo creato e vissuto con il genitore d’intenzione».
Tirando le fila, questa è l’istantanea del diritto vivente in argomento. Un argomento ad alta temperatura. Anzi: altissima dopo la recente decisione della Procura di Padova di chiedere la rettifica di trentatré atti di nascita indicanti due genitori dello stesso sesso.
Ai giudici, dunque, l’ardua sentenza; mentre il legislatore, sulla sua nuvola, resta inoperoso a guardare.