«Madame Butterfly» (1904) di Giacomo Puccini è un’opera lirica che affascina e commuove il pubblico da oltre un secolo. L’opera si svolge nel Giappone del 1800 e racconta la storia di Cio-Cio-San, conosciuta come Butterfly, una giovane geisha innamorata dell’ufficiale americano Pinkerton.
Una storia intrisa di speranza, desiderio e, soprattutto, sogni. Cio-Cio-San, infatti, desidera ardentemente vivere una storia d’amore con l’ufficiale, coltivando il sogno di un futuro insieme, alimentato dal ricordo dell’incontro con lui e dal sentimento intenso che prova. Nonostante gli avvertimenti dei personaggi circostanti sulla natura volatile di Pinkerton, la protagonista si aggrappa al sogno ingannevole del suo ritorno e di una passione corrisposta. Questa illusione amorosa è così potente che Butterfly respinge la realtà e s’immerge nel suo mondo onirico. Il terzo atto di «Madame Butterfly» è un punto di svolta cruciale, in cui il sogno della protagonista s’infrange definitivamente.
Scopre infatti che Pinkerton si è risposato in America e che l’unico motivo del suo ritorno a Nagasaki, è per portarle via il figlio avuto insieme.
La dura realtà distrugge il mondo dei sogni di Cio-Cio-San, costringendola ad affrontare una verità crudele e dolorosa. Butterfly cadrà in un abisso di illusioni spezzate, che la trascinerà all’estrema disperazione. Tuttavia, dietro la bellezza musicale e la commovente narrazione di quest’opera, si cela un aspetto controverso: la rappresentazione stereotipata della donna giapponese. Il “feticcio della donna asiatica”, così come rappresentato da Cio-Cio-San e da tutta l’opera di Madame Butterfly, si è diffuso nell’immaginario Euro-Americano a fine 1800, e la sua continua ripetizione, negli anni e sotto svariate forme, ha contribuito a tramandare immagini superficiali e limitate delle donne giapponesi, influenzando la percezione occidentale di intere culture.
Una donna orientale cioè, sottomessa, fragile, esotica e pronta a sacrificarsi per l’amore del suo uomo.
Questa immagine, in realtà, non è nata con l’opera di Puccini, ma le sue radici sono da ricercare nell’Orientalismo, un approccio occidentale che tende a considerare l’Oriente come l’ “altro” esotico e misterioso. Una contrapposizione “noi-Occidente” e “l’altro-Oriente” che vede il secondo come “inferiore, sottomesso, influenzabile”. L’apertura del Giappone nel 1868 (dopo tre secoli di chiusura verso l’Occidente), ha alimentato l’immaginario collettivo di questo distante paese come “esotico”.
Le opere artistiche, la letteratura, i viaggi e le esposizioni internazionali hanno diffuso una rappresentazione romantica e idealizzata dell’arcipelago. Peccato che la narrazione della donna giapponese sia stata quasi sempre erronea e impregnata di visioni scorrette a livello culturale creando lo stereotipo che ancora oggi conosciamo.
Ad esempio, negli Stati Uniti degli anni ’60 del 1800, andavano di moda delle cartoline raffiguranti giovani donne giapponesi e, all’epoca, erano uno dei pochi mezzi attraverso cui conoscere il Giappone. Tuttavia, come evidenziato da Ellen Handy nel saggio «Japonisme and American Postcard Visions of Japan», queste immagini non possono essere considerate un vero specchio della realtà femminile giapponese di fine XIX secolo in quanto includevano ed escludevano volutamente, da parte del fotografo occidentale, determinati elementi della scena e posizionavano i soggetti in un modo specifico.
I soggetti femminili giapponesi ritratti in queste cartoline erano etichettati con concetti astratti e idealizzati, piuttosto che essere identificati come persone reali: “Miss Melograno”, “Glicine” o “Regina della Geisha”, per citarne alcuni. Ciò creava una distanza tra il soggetto e la sua identità individuale, contribuendo a perpetuare l’immagine di un’essenza esotica e misteriosa associata alle donne giapponesi. Inoltre, in nessuna di queste cartoline era raffigurata una donna mentre lavorava. Le donne erano rappresentate solo in modo da eccitare i sensi e stimolare l’immaginazione. Erano preferite le espressioni blande e sguardi distolti, creando un’immagine frammentata del corpo femminile. Questo approccio limitato alla rappresentazione delle donne giapponesi riduceva la loro individualità e complessità, concentrando l’attenzione esclusivamente sugli aspetti visivi e sensuali.
Le cartoline dell’epoca hanno creato perciò un’immagine stereotipata e idealizzata delle donne giapponesi, etichettandole con concetti astratti, oggettificandole e rappresentandole in modi che escludevano la loro realtà quotidiana e la loro personalità.
Ad alimentare ancor di più l’immagine della donna giapponese come “bambola esotica”, è stato il romanzo «Madame Chrysanthème» (1887) di Pierre Loti, l’antenato letterario dell’opera di Puccini. Il libro racconta la storia di Loti stesso, un marinaio francese, che visita il Giappone e si sposa temporaneamente con una giovane giapponese di nome Madame Chrysanthème. Nel romanzo, Madame Chrysanthème è descritta come una donna fragile, sottomessa e passiva, che si conforma agli ideali di bellezza giapponesi. La sua immagine è quella di una figura esotica e misteriosa, priva di una vera personalità e considerata un oggetto di desiderio per l’occidentale. Nel suo diario Loti descrive la moglie come “quella bambola“, affermando che “l’ho scelta per divertirmi” e decide di “godersi gli ultimi giorni in Giappone, traendone tutto il divertimento possibile“. La donna diventa così un vero oggetto, non più umano. L’uomo occidentale diventa il padrone delle bambole giapponesi (figure femminili senza alcun diritto e possibilità di ribellarsi), giocandoci e muovendole a suo piacimento.
Cruciale nella creazione di un’immagine errata e stereotipata della donna giapponese è stata (ed è tuttora) l’incomprensione del ruolo della geisha da parte degli occidentali. Il termine geisha, in giapponese, significa semplicemente “persona dedita alle arti” (芸 gei = arti, 者sha = persona), in cui il ruolo di vendere il proprio corpo non è presente né a livello semantico né a livello culturale. La figura della geisha è emersa nel Periodo Edo (1603-1868) con la nascita dei quartieri del “mondo fluttuante”, sebbene le prime forme di intrattenimento simili risalgono al Periodo Heian (794-1185). Il termine “geisha” iniziò ad essere utilizzato nel XVII secolo, quando il sistema delle case di piacere iniziò a svilupparsi e le donne intrattenitrici si specializzarono nelle arti come musica e danza, allontanandosi dalla prostituzione. Il governo shogunale del Periodo Edo impose una politica d’isolamento nei confronti del resto del mondo, limitando i contatti con gli stranieri e creando un clima di stabilità interna. Questa relativa pace e prosperità economica portarono alla nascita di una nuova classe sociale di mercanti e artigiani che avevano maggiori possibilità di godere del loro tempo libero. Il “mondo fluttuante” rappresentava un’evoluzione culturale che si concentrava sulla bellezza e sul piacere fugace della vita.
Era un ambiente in cui le persone cercavano di sfuggire alle rigide gerarchie sociali e alle restrizioni imposte dal confucianesimo e dal sistema di caste. In questo contesto, il piacere, l’arte, la moda, la musica e la letteratura divennero elementi centrali nella vita quotidiana. Le case da tè, i teatri kabuki e gli spettacoli di bunraku (teatro delle marionette) divennero luoghi di svago popolari. Le geisha, donne addestrate nell’arte della musica, della danza e della conversazione, divennero icone del mondo fluttuante, intrattenendo gli ospiti in questi ambienti. All’interno del mondo fluttuante esistevano anche le prostitute, ma erano ben lontane dalle case da tè delle geisha e non potevano in nessun modo confondersi con esse.
Tuttavia, nel XIX, secolo molti stranieri occidentali erano abituati a un’idea diversa delle professioniste dell’intrattenimento, e non erano familiari con il concetto delle geisha e del mondo fluttuante. Inoltre, la barriera linguistica portò spesso a fraintendimenti e molte prostitute iniziarono a farsi chiamare “geisha” poiché era un termine più semplice e più conosciuto anche da parte degli stranieri. L’immagine delle geisha è stata così distorta e semplificata nel contesto occidentale, in particolare attraverso opere letterarie e teatrali che le hanno rappresentate come prostitute o donne di piacere. Questa rappresentazione inesatta e sensazionalistica ha contribuito a perpetuare lo stereotipo delle geisha, e in generale della donna asiatica, come figure esotiche e sessuali.
Nel personaggio di Cio-Cio-San ritroviamo così tutti gli elementi tipici dell’epoca di stereotipizzazione e oggettificazione della donna giapponese, imprigionata nell’immagine della bambola, oggetto sessuale e oggetto di desiderio per gli uomini occidentali. L’immagine proposta da Puccini è quella di una donna debole e sottomessa, pronta ad accettare passivamente il suo destino. Madame Butterfly è una geisha, quindi donna di piacere e di facili costumi, che rappresenta a pieno la “femminilità esotica” della “bambola orientale”. La sua totale dedizione a Pinkerton e la sua disposizione a sacrificare tutto per l’amore hanno contribuito a costruire l’immagine della donna giapponese come una figura servile, priva di autonomia e di volontà propria.
Questo stereotipo nega la complessità e la diversità delle esperienze delle donne giapponesi, riducendole a un ruolo passivo e stereotipato.
È innegabile che l’opera di Puccini sia stata composta in un’epoca in cui il Giappone era poco conosciuto, senza i mezzi di comunicazione di oggi, ed era principalmente considerato un Paese esotico e misterioso per l’Europa. Tuttavia, nel Terzo Millennio, pochi di noi si sono risvegliati dal sogno illusorio della rappresentazione di Cio-Cio-San. Continuiamo a perpetuare l’idea che le geisha siano prostitute e che le donne giapponesi siano sottomesse e prive di personalità. Il nostro status di “Occidente”, portatore di valori corretti, ci spinge spesso a bendare gli occhi e a non vedere l’altro Oriente in un sistema paritario in quanto percepito tuttora come inferiore o troppo distante per essere compreso.
Non sarebbe giusto apportare modifiche all’opera di Madame Butterfly, un capolavoro unico, nato in un contesto culturale e storico specifico. Ciò nonostante, potremmo rivolgere l’attenzione ad una più corretta narrazione e rappresentazione della donna giapponese, specialmente nel mondo del marketing che si ostina ancora a proporre immagini del “feticcio della donna asiatica”.
Forse “un bel dì vedremo” rappresentazioni di donne in kimono dall’espressione naturale, e non sentiremo più riferimenti offensivi rivolti ad esse, etichettate come “geisha” a far intendere la loro sottomissione all’uomo. Dovremmo sforzarci di sfatare gli stereotipi e promuovere una visione più accurata e approfondita della donna giapponese e della cultura che la circonda. Bisognerebbe infrangere il sogno occidentalista della bambola Madame Butterfly.