Ebbene sì, ho ritenuto che parafrasare il titolo di uno dei più magici album di Lucio Battisti fosse il modo migliore per cominciare il racconto della mia esperienza e storia come ricercatore che, per la natura stessa della ricerca, non smetterà mai di definirsi “giovane”.
Sono nato a Taranto 35 anni fa, e da allora non ho mai smesso di avere fretta di crescere, di arrivare un centimetro più in alto del giorno prima, idealmente sempre più lontano. Ho comprato il mio primo telescopio a 9 anni, letto il mio primo libro di astronomia a quella stessa età, e cercato – guardando il cielo – tutte le risposte che non trovavo intorno a me. In fondo, per me l’astronomia ha rappresentato sempre un mezzo per arrivare a rispondere ad una domanda intima, scomoda, difficile da fare a sé stessi: qual è il mio posto nel mondo?
L’osservazione del Cielo – specialmente con un telescopio – ci fa infatti comprendere che le distanze che separano la Terra dal resto sono gigantesche, e che l’Universo è fondamentalmente… vuoto. Insomma, a seconda dello spirito con cui lo si osserva, può prevalere la desolazione più sconfinata, oppure l’ammirazione più grande per essere parte di qualcosa che, al netto del vuoto, ai nostri occhi è dominato dalla luce di oggetti lontanissimi.
Il mio amore per le scienze planetarie nasce dunque da qui: dalla possibilità di osservare i nostri vicini di casa, i pianeti del Sistema Solare, e scoprirne i segreti. Il punto è che l’osservazione planetaria si serve ad oggi di tecniche e strumenti che sono i più disparati: dai telescopi a Terra, alle sonde interplanetarie, fino alle analisi di laboratorio su campioni rocciosi prelevati da robot o accidentalmente caduti sotto forma di meteoriti sul nostro pianeta. A loro volta, in ciascuno di questi contesti si possono utilizzare una quantità enorme di strumenti e metodi di indagine, che però hanno tutti come comune denominatore lo sfruttamento dell’interazione tra la radiazione e la materia.
Qui torniamo ad un punto menzionato in precedenza: quello che riusciamo a vedere con i nostri occhi – la luce visibile – costituisce soltanto una piccolissima parte dell’informazione veicolata nell’Universo.
Ogni oggetto, infatti, emette e diffonde una gran quantità di radiazione elettromagnetica e non, cui gli astronomi sono interessati per comprenderne meglio la natura. Banalmente, il solo fatto che guardando due oggetti diversi noi possiamo distinguerli è possibile perché la maniera in cui quei due oggetti interagiscono con la luce visibile è differente, portando informazioni diverse ai nostri occhi.
Il mio lavoro consiste nello sfruttare l’informazione che proviene dai corpi celesti per caratterizzarne la composizione chimica, l’evoluzione e i processi che vi avvengono oggi. Questo è possibile perché, come si diceva prima, quando la materia interagisce con la radiazione quest’ultima “porta” all’osservatore le tracce di questa interazione.
Anche qui, possiamo fare un esempio banale: quando la luce del Sole incontra la superficie della Terra e della Luna, incontra anche componenti superficiali diverse (roccia nuda nel caso della Luna, oceani o foreste nel caso della Terra), risultando nel fatto che le due appaiono di colori molto diversi. Insomma, ogni composto chimico presente in atmosfera o in superficie ha la sua “impronta digitale”, che si manifesta sotto forma di assorbimenti o emissioni a colori, o meglio “lunghezze d’onda” molto specifiche.
Il mio lavoro è elaborare tecniche che consentano di separare queste impronte digitali l’una dall’altra, e in tal modo desumere l’abbondanza dei singoli composti chimici, e lo faccio sulla Terra, su Marte, e occasionalmente su altri corpi celesti.
A questo lavoro che è estremamente tecnico si accompagna un grande lavoro di studio e di concetto, che consiste nel tentare di dare delle spiegazioni fisicamente sensate a quello che si osserva, formulando le opportune ipotesi evolutive. Questo non si fa alla cieca, ma si cerca di rispondere a delle domande fondamentali riguardanti l’evoluzione del nostro Sistema Solare, tra cui: qual è stato il corso degli eventi che ha portato alcuni dei pianeti ad essere così diversi? Tutti sogniamo di trovarne i segni, ma c’è mai stata vita su altri mondi, o quantomeno le condizioni adatte ad essa?
E poi, guardando a casa nostra: qual è lo stato di salute del nostro pianeta? Come avanza il riscaldamento globale? Tutte queste domande sono accomunate dal metodo con cui si possono risolvere, che passa dall’analisi di dati osservativi di varia natura.
La mia ricerca guarda soprattutto alla Terra e a Marte.
Marte, in particolare, è da sempre stato un pianeta ricco di fascino, per via del fatto che sotto molti aspetti è un gemello mancato della Terra: il giorno dura poco più di 24 ore, e la sua inclinazione dell’asse fa in modo che abbia stagioni simili alle nostre, pur con temperature molto più basse.
Ha anche delle calotte polari, e quindi delle riserve di acqua che non sono trascurabili. La ricerca attuale che guarda a Marte si focalizza su alcuni aspetti chiave della composizione del pianeta, e le missioni attive attorno al pianeta al momento cercano di capire quale sia la storia del pianeta e i dettagli della sua composizione atmosferica.
Come ricercatore, ho speso cinque anni della mia vita al centro NASA Goddard di Washington DC, dove grazie ai dati e all’attività della missione ESA ExoMars Trace Gas Orbiter abbiamo svelato numerosi misteri del comportamento dell’atmosfera di Marte.
Abbiamo infatti scoperto che la poca acqua presente in atmosfera è un eccezionale indicatore del livello di attività dell’atmosfera: lungo la sua orbita, infatti, Marte va incontro a periodi di riscaldamento nel momento di massima vicinanza al Sole, e questo comporta una aumentata attività atmosferica che determina la formazione di enormi tempeste di sabbia, che riscaldando l’atmosfera possono far sì che il vapore acqueo risalga verso gli strati più alti dell’atmosfera. I meccanismi di questo fenomeno sono stati osservati per la prima volta proprio da ExoMars. Come spesso accade poi nella storia dell’esplorazione dell’Universo, succede che si cerca qualcosa ma poi si finisce per inciampare in delle scoperte inaspettate: ExoMars venne infatti progettata per diventare il più preciso cacciatore di metano in atmosfera. La presenza di metano, a lungo dibattuta su Marte, è infatti cruciale perché potrebbe indicare processi geologici o biologici in atto (sulla Terra è infatti essenzialmente prodotto dalla vita).
Dopo anni di osservazioni, risulta ormai chiaro che il metano potrebbe non essere su Marte, ma nel cercare il metano ci siamo imbattuti in un’altra molecola, l’acido cloridrico, che pensavamo non essere in atmosfera. La sua scoperta ha permesso di capirne la stagionalità, e con essa il fatto che è la polvere che si solleva dalla superficie a liberarlo in atmosfera. Tutte queste scoperte sono state accompagnate da tanti altri lavori, un po’ più di nicchia ma non per questo meno importanti.
Uno dei modi con i quali riusciamo ad indagare il passato di un’atmosfera planetaria è infatti quello di quantificare i cosiddetti “isotopi” delle molecole principali: si tratta di molecole di analoga composizione, ma nelle quali i nuclei degli atomi che le formano contengono neutroni in eccesso, quindi sono più pesanti e pertanto rispondono diversamente ad alcuni aspetti della fisica atmosferica: per esempio, è più difficile che sfuggano alla gravità.
Gli isotopi, come le loro molecole “parenti”, possono essere rilevati attraverso l’analisi della radiazione elettromagnetica a frequenze specifiche.
Studiando le abbondanze relative tra isotopi su Marte e confrontandole con quelle terrestri, quindi, si possono ricavare informazioni sulla passata evoluzione del pianeta.
Con ExoMars abbiamo misurato le abbondanze relative degli isotopi di acqua, anidride carbonica e altri composti in atmosfera, scoprendo tra le altre cose che queste abbondanze sono soggette a variazioni stagionali, e che quindi la loro interpretazione non è affatto banale.
Analisi così complesse potrebbero sembrare roba solo da addetti ai lavori, ma la verità è che i loro effetti si riverberano anche sulla nostra conoscenza della Terra e del suo clima. Guardare a diversi mondi, infatti, ci consente di applicare e sviluppare conoscenza verificandone la validità in contesti differenti, consentendo di generalizzare i modelli e le teorie utilizzate e rendendole più robuste. Una delle attività che porto avanti è quella di sviluppare modelli che simulano la radiazione elettromagnetica come viene osservata da satellite attorno ad un pianeta qualunque, del quale sia nota la composizione e le proprietà fisiche. Sviluppare tali modelli è fondamentale per poi simulare i dati osservativi e ricavare da essi le proprietà planetarie di interesse, solo che per avere confidenza nella loro validità è necessario testarli su diversi pianeti. Questa è un’attività quindi alla base della massimizzazione del ritorno scientifico delle missioni di osservazione planetaria, e che anche in piccole realtà come l’Università della Basilicata, dove lavoro dal settembre 2022, viene svolta ad altissimo livello. La Scuola di Ingegneria, in particolare, è una delle poche coinvolte in una nuova missione Earth Explorer dell’ESA, che si chiama FORUM.
La missione, che lancerà nel 2026, sarà la prima dedicata alla osservazione dell’intero spettro di radiazione emessa dalla Terra, che ci permetterà di comprendere a fondo il bilancio energetico del nostro pianeta e il comportamento delle masse umide, specialmente nelle regioni polari.
Nel nostro lavoro ci occupiamo di elaborare tutta una serie di strumenti scientifici che siano in grado di recepire i dati della missione e di sfruttarne al massimo il contenuto, un lavoro cruciale prima che la missione stessa venga lanciata e che dà grande visibilità ad una piccola realtà come l’Università della Basilicata.
In tal senso, urge sottolineare che questa realtà, pur con le problematiche legate alla diminuzione delle iscrizioni, alla mancanza di alcuni servizi, e ad una dimensione internazionale ancora non pienamente sviluppata, riesce comunque ad esprimere scienza di alto livello, che è alla base della possibilità di giungere ad importanti traguardi come quello di avere un Dipartimento di Eccellenza riconosciuto dal Ministero. Non si tratta solo di un sogno, ma di avere riconosciuto prestigio, e con esso finanziamenti che consentano di incrementare le attività svolte, ed essere ancora di più un riferimento per la comunità locale e per i tanti giovani di talento che, un po’ per mancanza di speranze e un po’ per tradizione, decidono di andare via. Per invertire la rotta serve però programmazione, visione, e contaminazione delle competenze e dei saperi, perché non si può pensare di affrontare sfide globali e complesse settorizzandole. È invece necessario provare a fare parlare tra loro ambiti diversi, coinvolgendone le migliori energie.
Mi auguro che le Scienze Planetarie possano sempre più muoversi nella direzione di comprendere tutti gli aspetti del passato del nostro pianeta, arrivando a capire perché, qui, la vita si sia potuta sviluppare e sviluppando le conoscenze necessarie a proteggerlo e a mantenere tali condizioni.
Anche se il nostro sogno è quello di colonizzare altri mondi, di andare sempre più lontano, è da qui che dobbiamo partire. Perché se vogliamo rispondere a quella domanda da cui sono partito, beh…il nostro posto nel mondo è anzitutto qui.