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uaderni de La Scaletta

Il ricordo talvolta riporta ai sensi il nome di ogni cosa…

Stephen Dedalus

Lelio, Miranda, o la fragranza dei trent’anni

Non so a quanti Poeti esordienti (immagino pochi) sia stata data la possibilità di parlare di un proprio scritto in un luogo letterario importante, come questo dei ‘Quaderni de la Scaletta’; il che mi inorgoglisce. Non so, poi, quanti Poeti esordienti possano godere l’amicizia di esperti di Lettere, come Cristina Acucella, Ennio Donato Gagliastro e Fjodor Montemurro, che hanno dedicato tempo e parole alle mie poesiole; per non dire di Antonella Ciervo, Anna Giammetta e Franco Martina, sempre cortesemente attenti al mio percorso. Non so. Ma, per non sprecare questa doppia fortuna che ha tenuto a battesimo il mio libro di poesie “Miranda, o la fragranza dei trent’anni”, cercherò di raccontarlo nel migliore dei modi: con le loro preziose voci virgolettate, soprattutto, e con qualcosa di mio.
Miranda ha una genesi meditata. Ciascun elemento, in questo libro, si fa vettore di un senso ben preciso, che vorrei lasciar scoprire a chi legge: ogni parola, ogni sillaba, ogni virgola, persino la posizione di ciascun verso nella pagina è stata pensata, per il dovuto e profondo rispetto verso le Lettere e il mio Lettore; e, forse, questa «cura macrotestuale, cioè l’attenzione a tenere insieme i frammenti» delle liriche può già essere un motivo per non disprezzarle. Il libro affonda le sue radici nei luoghi della Tuscia, dove realmente ho vissuto nel 2016 e nel 2017, e narra una storia, un «itinerario poetico nello stile del liber catulliano o del Canzoniere petrarchesco». In Tuscia, l’io protagonista si trova all’inizio della vicenda ed è qui che, prima di rientrare a Matera, conosce Miranda. Chi sia, cosa abbia fatto, dove sia adesso sono questioni di importanza relativa, proprio come conta fino a un certo punto che la Laura petrarchesca (direi anche la Beatrice dantesca) sia esistita davvero: incide la traccia letteraria lasciata dalla figura femminile con ciò che ne scaturisce, ossia soprattutto «il ricordo nel giorno e la visione nella notte».
La vicenda è un percorso di sprofondamento nell’abisso e ritorno alla Vita, «tra accensioni luminose e oscurità, tra poesia solare e poesia notturnale», e ruota intorno a un evento cardinale: l’io, giovane e pulsante, ha incontrato Miranda, creatura indecifrabile che lo «ammalia come una sirena», ma pure così sacra che non ne ha mai assaporato la carne, nonostante avesse voluto e potuto.
Quindi, se ne depriva, tornando nella sua Matera ma sentendo Miranda «radicata in un eterno presente, che solo ‘cronologicamente’ può dirsi passato». Questa scelta, insieme al «tedio indolente della ritrovata città natia», genera, in un primo momento, «un colpo di stato interiore» a opera dei desideri: la follia erotica, uno sprimacciamento dei sensi contro ogni involucro sensuale disponibile, che porta quasi al suicidio. Sopraggiunge poi la salvezza, con «una nuova linfa attraverso una concezione più alta della sua Miranda», diventata ora «un simulacro che simboleggia un amore più elevato di quanto la donna rappresenti».
Miranda, da essere reale, diventa infine essenza pura, «donna metafisica e metastorica», «un ‘male necessario’, un passaggio esistenziale che richiede un senso», un’energia formidabile che convoglia verso la «consapevolezza» di sé tutta la foga, la passionalità e quella mezza maturità che contraddistinguono i trent’anni.
Non è assolutamente un caso che questo nome d’invenzione, questo senhal, sia un «gerundivo latino che indica “colei che deve essere guardata”»: e Miranda deve esser guardata perché, per mezzo della splendida esperienza che lei ha costituito, «il poeta volge il suo sguardo al mondo, per osservarlo e rimirarlo attraverso quella flebile e pur così pungente lente del ricordo», che gli fa riassaporare le passioni proprie dei trent’anni.
I trent’anni, appunto. Non il trentesimo anno, ma gli anni a ridosso dei trenta (con il loro bagaglio esperenziale), come si evince dalla data in calce del 21 giugno 2018, riferimento autobiografico al giorno prima del mio reale trentesimo compleanno. I trenta sono «l’età giusta» per evitare l’ingenuità adolescenziale e il disincanto della maturità, sono «il tempo in cui anche la perversione è innocente» e dove tutto è «fragrante, come recita il titolo».
E qui D’Annunzio, «modello che pervade il libro», è maestro e guida nel mondo delle passioni, tanto che sin dall’inizio c’è un «invito a immergersi in un epidermico godimento dei sensi nella natura circostante». Ma i trenta sono anche il giro di boa, il momento per fare il punto della situazione: l’età in cui l’esperienza forse non è molta, ma è abbastanza per decidere cosa e come fare nella Vita, «tra passioni senza posa e mea culpa per quello che poteva essere e non è stato». E l’io decide infine di vivere, e di vivere bene, senza «cancellare nulla, solo mettendo un argine a quello scorrere inesorabile del tempo della passione»: perché in fondo è questo ciò che Miranda, in qualche modo, gli ha insegnato.
Una parola, in chiusura, dovrei dedicare alle scelte stilistiche, tormentate dal contrasto fra il bisogno di scrivere come i Padri della Letteratura Italiana (rinchiusi nella «soffitta» della poesia proemiale) e l’attualità che, invece, richiede soluzioni diverse. Non ho resistito: ho ceduto al richiamo avito e «all’arte dell’endecasillabo», seppur con saltuarie peregrinazioni e stravaganze moderne dettate, spesso, dalle necessità narrative. E questo perché Miranda, per il suo grado di elaborazione, ha l’ambizione di collocarsi sotto autori come Manzoni, evocato all’inizio «ironicamente dai ventiquattro lettori (venticinque lettori manzoniani meno uno)», come i figli stanno sotto i padri quando vogliono essere presi in braccio o sulle spalle, ma dei padri non sono la replica.
L’auspicio, dunque, è che Miranda possa non sfigurare sui ripiani medio-alti della libreria, riverentemente accanto a altri autori che si evocano solo con il nome (a questo, per fortuna, il mio si presta abbastanza). È lì che io, nella speranza di essere il «prosecutore di una tradizione di lungo corso», mi auguro di vedere il mio libretto, per ricompensare non la sua opinabile piacevolezza, ma la profondità di un’esperienza umana che la penna ha tentato di restituire. E di mettere a disposizione degli altri.

Lelio Camassa
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