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uaderni de La Scaletta

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Democrazia e futuro

Il voto per l’Europarlamento del 9 giugno e la crisi delle tradizioni politiche europee

Fra il 6 e il 9 giugno i cittadini dei 27 stati dell’Unione Europea saranno chiamati alle elezioni per eleggere il nuovo Parlamento, che resterà in carica per i prossimi cinque anni. La cifra di questa importante tornata elettorale è rappresentata dall’impatto che sugli esiti del voto saranno in grado di avere partiti e movimenti euroscettici.
I più recenti dati di sondaggio segnalano infatti un crescente consenso a favore dei partiti nazionalisti e populisti che nei diversi Stati membri hanno costruito il loro successo sulla critica verso l’Europa e le sue istituzioni. Anche se tale consenso non sembra ancora sufficiente a far sì che il prossimo Euro Parlamento abbia una maggioranza organizzata intorno a queste forze, in larga prevalenza di destra o centro-destra. L’asse fra Socialisti e Popolari, con l’ausilio dei Liberal-democratici e di altri raggruppamenti non euroscettici, dovrebbe perciò ancora una volta tenere. Fin qui le valutazioni fondate sull’analisi demoscopica degli orientamenti di voto dei cittadini europei, che consentono di avanzare previsioni sui possibili rapporti di forza fra coloro che intendono proseguire e consolidare ulteriormente l’integrazione europea e coloro che vi si oppongono, rivendicando il primato di un’Europa dei popoli e delle nazioni.
Ma al di là degli esiti concreti che una possibile spallata euroscettica potrebbe avere sui destini più prossimi del Vecchio continente, è chiaro a tutti che qualcosa di molto importante è cambiato. È ormai da quindici anni, dal 2009, quando per la prima volta i partiti neo-populisti ed euroscettici si sono affacciati a Bruxelles, grazie a una prima significativa, anche se ancora marginale ma diffusa affermazione nelle elezioni del Parlamento Europeo, che il mondo politico su cui Socialisti e Popolari avevano costruito, insieme ai liberal-democratici, l’Unione Europea ha iniziato a dare evidenti segni di dissolvimento.
Un tramonto segnato da quello che appare sempre più come il lento ma inesorabile declino delle tradizioni politiche che avevano contribuito a costruire un’Europa unita sulle macerie della Seconda guerra mondiale.

Stiamo parlando anzitutto delle tradizioni e famiglie politiche socialista e social-democratica, così come della tradizione e radici cristiano-democratica, insieme a quella, meno consistente ma non per questo meno importante, liberal-democratica.
L’Europa di oggi è sorta per iniziativa politica di quattro grandi statisti: Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Konrad Adenauer e Jean Monnet.
Un trentino, nato sotto l’impero austroungarico e dopo la Prima guerra mondiale diventato italiano, un lorenese, alla nascita francese e diventato tedesco dopo l’annessione della Lorena alla Prussia, un tedesco nato nella Prussia renana che sviluppò un atteggiamento molto critico nei confronti dell’annessione della Renania alla Prussia, e un altro francese che aveva vissuto così a lungo a Londra da essere inviato negli Stati Uniti come rappresentante del governo inglese nel 1940 e diventare uno dei consiglieri più ascoltati di Franklin Delano Roosevelt.
Uomini di confine, che avevano sperimentato il fatto di vivere nella marca di un grande impero o il fatto di passare da uno stato a un altro. Uomini che avevano vissuto attraversando confini o erano stati per lungo tempo in paesi diversi da quello di origine. Uomini per cui i confini avevano il senso di un limite obsoleto, superato dai tempi.
A questi uomini si era aggiunto un visionario, Altiero Spinelli, che con il suo Manifesto di Ventotene (“Per un’Europa libera e unita” era il titolo originario di quel pamphlet) aveva immaginato, insieme a Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, una nuova idea di Europa, ispirata ai principi di pace e libertà, democraticamente fondata su un parlamento e un governo propri, e su una politica unitaria, dal campo economico alle relazioni internazionali. Un progetto che, pur rispetto tra evidenti limiti e inevitabili velleità (un’eccessiva visione stato-centrica, anche se del Manifesto ne parla troppo spesso a sproposito, essendo ben pochi quelli che lo hanno letto), rappresentava un sogno e un ideale, oltre che una sfida straordinaria, vista la vicenda storica che aveva fatto del Vecchio continente il teatro privilegiato di sanguinosi conflitti bellici, politici e religiosi. De Gasperi, Schuman, Adenauer e Monnet erano accomunati dalla medesima radice culturale, quella del cattolicesimo democratico, che è senza dubbio stata una delle tradizioni politiche fondative dell’Europa unita. L’altra importante tradizione politica che ha accompagnato la nascita e la costruzione prima della Comunità e poi dell’Unione Europea è stata quella socialista democratica, che peraltro è stata la protagonista principale del cosiddetto “secolo socialdemocratico”, quella lunga stagione di progresso che ha segnato lo sviluppo europeo del secondo dopoguerra e che attraverso l’intervento pubblico e la costruzione del Welfare state ha permesso di costruire l’Europa sociale che conosciamo. Le tradizioni cristiano-democratica e social-democratica sono dunque alla base della costruzione europea. Un ruolo minore, seppur importante, ha avuto anche la tradizione liberal-democratica, da Simon Veil, prima Presidente del Parlamento Europeo, a Romano Prodi, che pur essendo un cattolico democratico in Europa si riconobbe nell’Alleanza dei Liberali e dei Democratici per l’Europa (ALDE, oggi Renew Europe) per via della collocazione nel campo conservatore del Partito Popolare Europeo.
Cattolici democratici e Socialisti democratici hanno anche dato vita ai due raggruppamenti politici numericamente più consistenti dell’Euro Parlamento: il Partito Popolare Europeo (PPE) e il Partito Socialista Europeo (PSE, oggi Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici Europei). Il PPE, fondato nel 1976 per iniziativa dell’allora Primo ministro belga Leo Tindemans, che ne fu anche il primo Presidente, raccoglie le forze politiche di ispirazione cristiano-democratica e orientamento moderato e conservatore.
Il PSE (ora S&D), nato nel 1992 dall’unificazione delle forze socialiste che fin dal 1973 si erano ritrovate nella Confederazione dei Partiti Socialisti della Comunità Europea insieme ai laburisti inglesi e irlandesi, raccoglie i partiti socialisti, socialdemocratici e democratici di stampo progressista. Socialisti e Popolari europei, con le loro rispettive tradizioni politico-culturali, sono in buona sostanza coloro che hanno costruito, insieme alla minoranza laica e liberale, il compromesso democratico su cui poggiano le istituzioni dell’Unione Europea. Hanno scommesso sull’integrazione, ne hanno definito l’orizzonte, affrontato le sfide che si sono affacciate lungo il percorso, hanno delineato il futuro di un continente che, senza questa grande scommessa, compresso nella competizione globale fra USA e Cina, con la fine della Guerra fredda e del suo ruolo come terreno di confronto a distanza fra le due superpotenze, sarebbe stato destinato a un inevitabile declino.
Un semplice sguardo agli assetti istituzionali dell’Unione Europea, a chi ne ha presieduto il Parlamento, a chi ne ha detenuto la maggioranza dei seggi, e a chi ne ha presieduto la Commissione fornisce una chiara riprova di quanto stiamo affermando. Dal gennaio 1958 a oggi si sono alternati al vertice della Commissione Europea 14 Presidenti, dal Popolare Walter Hallstein alla Popolare Ursula von der Leyen. Sei sono stati Popolari, quindi cattolico-democratici, e quattro sono stati Socialisti. Ai quali si vanno ad aggiungere tre Presidenti liberal-democratici, fra i quali Romano Prodi, politico di orientamento cattolico-democratico.
Dal 1979, quando venne eletto il primo Parlamento Europeo, a oggi al vertice dell’assemblea si sono succeduti diciannove Presidenti, dei quali otto Popolari, otto Socialisti e due liberal-democratici (più un gollista francese, indipendente). Prendendo poi in considerazione il voto dei cittadini europei, rileviamo che la percentuale di seggi attribuiti in ogni legislatura a PPE e PSE è mediamente stata pari al 60% circa, con una punta del 69,5% nella terza Legislatura (1989/1994) e con valori attestati intorno ai 2/3 dei seggi complessivi fra la quarta e la sesta Legislatura (dal 1994 al 2009).

I problemi sono iniziati con la settima Legislatura, dopo il voto del 2009 – come si è detto -, a partire dalla quale l’asse PPE/PSE è andato perdendo progressivamente seggi, così da scendere prima al 61% (2009/2014), poi al 53% (2014/2019) e infine, con la Legislatura corrente (2019/2024), al di sotto della metà dell’assemblea (44.2%).
Nel contempo, il tasso di frammentazione dell’Euro Parlamento è andato
crescendo, con il numero dei partiti effettivi[1] che è passato dai cinque partiti del 1979 ai quasi sette di oggi. Una crisi che è contestuale alla crescente affermazione di partiti e movimenti euroscettici di stampo populista e nazionalista, che nell’assemblea di Bruxelles hanno trovato ospitalità soprattutto nei gruppi politici di Identità e Democrazia (dove si ritrovano, tra gli altri, il Rassemblement National di Marine Le Pen, insieme alla Lega per Salvini Premier, Alternative fur Deutchland, il Partito delle Libertà Austriaco, i fiamminghi del Vlaams Belang, il Partito per le Libertà olandese) e dei Conservatori e Riformisti Europei (che include, oltre a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, i Veri Finlandesi, i polacchi di Diritto e Giustizia, i populisti spagnoli di Vox, i Democratici Svedesi). Ma anche una crisi che viene dal lento logoramento delle due principali tradizioni politiche europee, la social-democratica e la cristiano-democratica. Un inesorabile processo di consunzione che ha portato nel corso degli ultimi quindici anni PPE e PSE a perdere la loro capacità di interpretare e governare le trasformazioni della società europea.
Nel contesto europeo, Popolari e Socialisti, pur essendo rappresentativi di schieramenti politicamente distanti, i primi al campo moderato/conservatore, i secondi a quello progressista, grazie al fatto che le caratteristiche istituzionali dell’Euro Parlamento non imponevano la determinazione di una maggioranza politica propriamente intesa (non dovendo di fatto esprimere un voto di fiducia a sostegno di un governo), non hanno mai dovuto contrapporsi, così come viceversa è avvenuto dal secondo dopoguerra a oggi nella storia politica dei singoli paesi europei. E ciò, se da un lato ha permesso a PPE e PSE di condividere posizioni di comando ai vertici sia del Parlamento sia della Commissione, dall’altro è certamente stato anche uno dei motivi per cui queste due famiglie politiche hanno finito con l’esaurire la spinta propulsiva a partire dalla quale avevano in passato costruito l’architettura europea.
Troppo simili e vicini, nel contesto istituzionale che li aveva storicamente visti cooperare in maniera consensuale alla costruzione europea, da poter rappresentare una reale alternativa l’uno all’altro. E con ciò da poter alimentare una dinamica competitiva che li vedesse protagonisti di visioni significativamente alternative di Europa, tali da indirizzarli alla ricerca di soluzioni innovative per le nuove crescenti sfide che stavano aggredendo il Vecchio continente.
Quel che più nel corso del tempo è mancato alle tradizioni social-democratica e cristiano-democratica è stata una più forte idea del progetto europeo. In particolare, alla fine del primo decennio degli anni Duemila, Socialisti e Popolari non hanno avuto il coraggio e la determinazione necessari per adeguare l’ispirazione originaria dei padri fondatori dell’Europa unita alle mutate condizioni economiche e sociali della società europea. La globalizzazione, con le sue dinamiche competitive per filiere produttive e movimenti di capitali finanziari transcontinentali, la crescita dei flussi migratori, soprattutto dall’Africa e dal Medio oriente, che hanno incrementato gli arrivi oltre le condizioni richieste dall’offerta di lavoro per i cosiddetti migranti economici, e oggi, dopo una pandemia che ha messo in ginocchio il mondo intero, lo scoppio di una guerra nel cuore del Vecchio continente e il persistere del conflitto israelo-palestinese, così come l’instabilità dei regimi del Maghreb e Mashreq ereditati dalle “Primavere arabe”. Sono queste le principali (non uniche) sfide che hanno trovato le tradizioni politiche socialista-democratica e cristiano-democratica del tutto impreparate.
In un passaggio d’epoca di grande turbolenza, in cui le questioni aperte a livello internazionale hanno conseguenze sempre più forti a livello nazionale.
Tradizione social-democratica e tradizione cristiano-democratica hanno faticato soprattutto nel ridefinirsi in un orizzonte internazionale, in cui un’Europa in costante crescita, anche grazie all’allargamento, avrebbe dovuto già assumere un ruolo internazionale al pari di quello delle grandi potenze. L’assenza di tale visione internazionale li ha indotti a concentrarsi pressoché esclusivamente sulla dimensione istituzionale della governance europea, così come sull’orizzonte prima del mercato e poi della moneta unica. E li ha poi spinti ad adottare una concezione prevalentemente “endogena” (ossia rivolta all’interno dell’Unione) del proprio orizzonte di sviluppo, come dimostrano la lodevole attenzione rivolta alla lotta contro le immissioni inquinanti prima e poi alla transizione ecologica, così come la priorità assegnata alla transazione digitale prima e poi all’intelligenza artificiale, nell’era della società dominata dalle tecnologie ICT. Anche se si tratta di una prospettiva che finora, guardando ben poco a cosa succede all’esterno dei confini dell’Unione, e perciò occupandosi prevalentemente di policy di sviluppo, ha impedito di dedicare maggiore attenzione alle forme di dipendenza che si stavano consolidando nel contesto internazionale: da quella energetica verso la Russia, a quella commerciale verso la Cina, fino a quella militare e strategica verso la NATO e gli Stati Uniti. E ha altresì distratto dalla necessità di consolidare la polity europea in direzione della costruzione degli Stati Uniti d’Europa, o di un altro modello alternativo in grado di consolidare la dimensione unitaria, sul piano politico, dell’entità sovranazionale che l’Europa già oggi è.

L’inadeguatezza sostanziale delle tradizioni politico culturali europee, in particolare di quelle social-democratica e cristiano-democratica, che sono le più diffuse, ha favorito il diffondersi dell’euroscetticismo di cui sono alfieri i partiti populisti e nazionalisti di ultima generazione.
E per evitare che il sogno di un’Europa unita svanisca sotto il peso del voto euroscettico è necessario che i partiti che appartengono alle tradizioni politiche che più quel sogno hanno alimentato sappiano reagire con orgoglio. Come sempre, le pressioni dell’ambiente esterno possono essere decisive: lo è stata la pandemia rispetto al Next Generation EU e al Recovery Fund, che hanno davvero inaugurato una nuova stagione per l’Europa, consentendo per la prima volta di avere una prima politica fiscale comune. Non è infatti un caso che oggi si parli di un meccanismo simile per finanziare le spese da intraprendere per la difesa comune.
Rispetto a ciò che si prepara, oltre Atlantico con le prossime elezioni alla Casa Bianca e con la complicata situazione sul fronte russo-ucraino, anche all’indomani del voto di giugno, i cambiamenti di rotta da Washington a Kyïv, passando per Mosca, potrebbero obbligarci a nuove importanti scelte strategiche. Le tradizioni politiche sono importanti: definiscono scenari di senso dentro i quali trovano posto le scelte degli uomini che portano alla realizzazione di importanti imprese. Le grandi tradizioni politiche che ci hanno regalato l’Europa oggi sono chiamate a ripensarsi per dare a questa Europa un futuro.
E l’occasione del voto per il Parlamento Europeo è una prima occasione da non farsi perdere.

Luciano Fasano
(Professore e Coordinatore Scientifico per il Circolo culturale La Scaletta del Progetto “Democrazia e Futuro”)

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