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uaderni de La Scaletta

Ogni forma di cultura viene arricchita dalle differenze, attraverso il tempo, attraverso la storia che si racconta

Gli Stati Generali

Dalle radici dell’Italia a quelle dell’Europa

L’Unità d’Italia è stata l’epilogo di un cammino e di un impegno durato mezzo secolo, di cui si resero protagonisti personaggi tra di loro assai diversi per indole, sentire politico, esperienze vissute e cultura, come Mazzini, Cavour e Garibaldi, che ciò nondimeno vennero raffigurati abitualmente insieme – e giustamente, ci sia consentito aggiungere – in quanto a fronte delle diversità di metodo, comune fu il fine da loro perseguito: dare concretezza al sogno di realizzare un solo Stato coltivato da quella popolazione che era sempre stata “Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” (Alessandro Manzoni, marzo 1821).
La rievocazione di quell’evento tanto remoto ormai nel tempo, non ha il valore di una sterile contemplazione retrospettiva di un mondo che non più ci appartiene, ma assume anzi, oggi più che mai, un significato etico e pedagogico di straordinaria importanza ed attualità. Né si tratta di una sorta di commemorazione funebre, bensì – ove ce ne fosse bisogno – della “certificazione di esistenza in vita” di un soggetto, quale la nostra Italia, che prima ancora di costituirsi come entità giuridico- politica, è stata ed è tuttora una realtà morale. Essa appare quale sintesi mirabile di una civiltà, le cui radici risalgono all’età classica, non vulnerata da pregresse sterili evocazioni di immaginifiche realtà ad essa alternative (la Padania), prive di qualsivoglia fondamento storico o sociale.
Ad oltre 160 anni dall’Unità d’Italia, occorre impegnarsi per la sua rinascita morale e civile, coerente a quella legge costante della civiltà occidentale onde, ogni qualvolta essa si protende a compiere un balzo avanti, sembra che debba prima ripiegarsi su di sé, risalire alle origini ed approfondire le basi sulle quali si è elevata, fino a recuperare le ragioni del proprio essere e della propria identità: era stato così anche nella “Rinascenza” dell’età medioevale (Giovanni Cassandro, “Lezioni di diritto comune”).
Alle nuove generazioni il Risorgimento addita la religione del Dovere in una superiore cornice di Libertà; il rispetto della dignità dei popoli, come degli individui; la promozione di una giustizia sociale sensibile ai più deboli, come al riconoscimento del merito individuale. Ed infine il riscatto del Mezzogiorno che resta, a distanza degli oltre 160 anni ricordati, il tassello incompiuto della costruzione unitaria, come è tuttora dato evincersi dal diverso tasso di sviluppo rispetto al Nord.
La virtù era (ed è) la pre-condizione di ogni buon governo – come insegnava Cesare Balbo (“Le speranze d’Italia”) – “sopra ogni cosa con l’esempio”, precisando inoltre che derivava principalmente “da quei pochi uomini i quali  si trovano ora duci della nazione (…), il cui sommo privilegio è che le loro virtù personali valgano per migliaia e centinaia  di migliaia, nella somma totale delle virtù nazionali”.
Vincenzo Gioberti (“Del primato morale e civile degli italiani”) così avvertiva: “Sono inclinato a credere che il tener poco o nessun conto degli ingredienti morali della ricchezza, sia causa di molti errori economici, e renda per poco insolubili un gran numero di questioni”. Lo stesso progresso economico non era legato tanto alla terra, al commercio, all’industria o al lavoro, in sé e per sé considerati, quanto al buon costume ed alla virtù, alle quali oggi più che mai va premessa la cultura come fattore di crescita. La drammatica parentesi fascista, che interruppe il moto ascensionale dell’epopea risorgimentale, indusse Benedetto Croce, nel corso di una conferenza tenuta nel dicembre 1943, a dichiararsi “fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni di italiani avevano in un secolo costruito politicamente, economicamente e moralmente, era distrutto”. Ma seguì la ripresa del Dopoguerra, che non fu soltanto economica, ma prioritariamente del vivere civile, ancorato a quelle libertà tramandate dal Risorgimento, cui altre se ne aggiunsero nella configurazione dinamica del nuovo Stato, non più soltanto custode di diritti, ma propulsore di una crescita sociale nella solidarietà.
Quanti, come chi scrive, sono nati negli anni Cinquanta, rammentano il clima delle celebrazioni per il Centenario dell’Unità, nella vivezza dei ricordi legati al periodo dell’infanzia, con la tensione ideale che caratterizzò quegli eventi commemorativi, tanto più intensi ed avvertiti degli attuali. Mostre, iniziative didattiche, sceneggiati televisivi ambientati nell’epopea risorgimentale (come “La Pisana”, trasposizione televisiva del romanzo “Le confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo), caroselli pubblicitari (come il “Dura minga”, col ritornello canoro “dura dai tempi dei garibaldini, China Martini, China Martini”), raccolte di figurine sulla spedizione dei Mille, da incollare nell’apposito album, per una storia divulgata in maniera intelligentemente giocosa.

Oggi, purtroppo, non vi è più nulla di simile, non tanto perché dalla poesia che accompagna i sentimenti della trascorsa fanciullezza, si passa alla prosa disincantata delle percezioni adulte, che scarnificano quasi ogni sogno, quanto per quello che, oggettivamente, ci si trova a dover leggere o ad ascoltare. Il protendersi verso l’universo delle cose quae sunt spiritus , è stato sostituito dalla bulimia dell’apparire invece dell’essere, dalla ricerca di effimeri simulacri di felicità, frutto di un egoismo distratto verso la maggior parte dell’Umanità sofferente, che non ha più neanche lacrime per piangere. Le luci dell’epopea risorgimentale, che oggi vogliamo rievocare, furono certo inframezzate da ombre (basti per tutte ricordare il massacro di Bronte ), né più né meno come accade in tutti i grandi eventi storici; ma anche i momenti bui vanno inseriti in quell’idea del progresso evocata da Johann Wolfgang von Goethe e ripresa da Croce, che deve immaginarsi come una spirale, e non come la retta ascendente  illusoriamente configurata ancora nel corso dell’ Ottocento .
Pure attraverso tali ombre, in un quadro di insieme, le luci assumono anzi, maggiore vivezza, a meno che le stesse ombre non si espandano come una coltre di caligine a tutto campo, che offusca il nitore del Vero. Il che vorremmo, con le nostre modeste considerazioni storico-giuridiche, cercare di dissipare. Ci riferiamo alla superficiale tesi di un Risorgimento da reinterpretare, in quanto frutto di un moto fondamentalmente elitario – “sopruso eroico” secondo la felice sintesi di Giovanni Spadolini – che fu, pertanto, privo di quella adesione delle masse (il consensus gentium del diritto romano), in assenza del quale ogni legge o istituzione deve essere ritenuta iniqua.
Ci troviamo peraltro innanzi a quella che già Croce, nel secolo scorso, aveva definito la “trita frase” del Risorgimento opera di una minoranza, il che pure aveva un fondo di verità, ma riguardo alla quale osservazione, il filosofo ebbe a sottolineare opportunamente che la forza del liberalismo era stata proprio nella sua capacità espansiva, nello sforzo cioè di superare il rilevato limite e di ampliare le fondamenta dello Stato, arrivando a ricomprendervi nuovi ceti e nuove idee, sino all’introduzione del suffragio universale. Lo stesso discorso di genesi meramente elitaria e non di massa, potrebbe farsi in merito all’Unione europea, la cui Costituzione in linea di massima venne ratificata nei Paesi dove sono stati i rispettivi Parlamenti ad esprimersi in merito, e respinta –viceversa – dove è stato chiamato ad esprimersi direttamente il popolo. Dovremmo per questo ritenere l’Europa una imposizione costruita a discapito dei cittadini che ne fanno parte? No di certo, anche se, volendo fermarci come criterio di validazione ultima delle leggi alla concezione appena ricordata, saremmo tentati di ritenere che ieri l’Italia, oggi l’Europa, in quanto costruzioni non condivise – pro tempore –dalla maggioranza dei contemporanei interessati, andrebbero perciò ritenute “inique”, nel senso evidenziato.

Per converso, non sembra inutile ricordare che istituzioni, come lo Stato nazista, furono ampiamente supportate, almeno agli inizi, da un ampissimo consenso di massa. Ed ancora, per meglio capire come detto consenso, pur necessario nel percorso logico mirante a cogliere la ragione ultima di istituzioni o norme, non sia sufficiente, un altro esempio può aiutarci a chiarire il concetto in questione. A tal riguardo, vorremmo ricordare che nel Risorgimento furono varate delle importanti leggi sociali, come quella sull’istruzione elementare, sinergica con quella sul lavoro dei fanciulli, entrambe fondamentali per l’ascesa morale e civile delle nuove generazioni. Vero è che, oltre all’opposizione scontata di quella parte del padronato agrario e industriale che vedeva l’istruzione come un pericoloso strumento sovversivo, attraverso la presa di coscienza da parte dei lavoratori, vi fu quella, assai meno scontata, delle famiglie, che preferivano avviare precocemente i fanciulli al lavoro, piuttosto che ottemperare all’obbligo di indirizzarli all’istruzione elementare gratuita.  Anche quelle leggi sociali, pertanto, al momento della loro emanazione, dovettero apparire ai diretti beneficiari come inique, o –se si preferisce- come un dono indesiderato. La bontà intrinseca di una norma andrebbe ritenuta, pertanto, nella proiezione dinamica di una prospettiva non immediata, il che vuol dire che la sua intrinseca razionalità oggettiva, può essere percepita solo da persone che siano divenute culturalmente in grado di recepirne la portata e gli intendimenti: non basta – in parole povere – che una qualsivoglia iniziativa o riforma sia strutturalmente buona, essendo altresì indispensabile che i destinatari siano maturi a comprenderla come tale. Questa è la ragione per cui Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) aveva esaltato il ruolo dell’istruzione, che mai avrebbe dovuto rendere l’allievo “addottrinato”, bensì avrebbe dovuto spingerlo a ragionare, in una sorta di palestra mentale dove veniva promosso l’esercizio dei poteri mentali dell’alunno: era la cosiddetta “istruzione educante”.

Conseguita l’Unità d’Italia, uno degli obiettivi prioritari del nuovo Regno era stato proprio quello della citata lotta all’analfabetismo, in virtù della quale si era cercato di affermare – pur con le difficoltà di concreta applicazione ricordate – il principio della gratuità e della pubblicità dell’insegnamento elementare. Non fu un caso se i proprietari terrieri, durante i tumulti dei Fasci siciliani, si sarebbero spinti a chiedere al Governo – senza tuttavia ottenerla – la soppressione di quel pericoloso veicolo di sovversione che loro appariva essere l’istruzione elementare!
Questo fu, in rapida sintesi, il contesto morale in cui si svolse il Risorgimento dell’Italia, la cui unità, a fronte dei particolarismi economici, giuridici e politici, aveva tratto le radici ideali da una comune coscienza etica e letteraria, radicatasi nella memoria dei fasti della romanità classica e vivificatasi tramite l’unità della lingua conseguita da Dante Alighieri in poi. Il tutto – non va tuttavia taciuto – prevalentemente nelle classi colte, essendo assai scarsa la percezione di un problema unitario da parte del popolo, che se avesse posseduto anche un minimo di istruzione, ne avrebbe potuto comprendere l’importanza al fine della propria elevazione etica, politica ed economica. Solo attraverso il sapere – attraverso quella “conoscenza” che già Immanuel Kant – sulla scia di una speculazione filosofica che affondava le radici nella classicità greca – giustamente aveva ritenuto mezzo essenziale per far emergere la razionalità, altrimenti recondita ed inespressa, che è in ciascuno di noi, si può scegliere coscientemente di aderire a dei regimi liberticidi o a dei sistemi liberali. Lo stesso dicasi per la capacità di cogliere appieno il significato autentico di una norma, che a fronte di sacrifici presenti, può mirare a produrre assai più ampi benefici per le generazioni future: questo fu ieri per l’Italia, questo è oggi per l’Europa.
Il nesso inscindibile tra l’idea dell’una e dell’altra, fu ben colto da Croce che nella sua Storia d’Europa nel secolo decimonono, (1932), così scriveva: “In ogni parte d’Europa si assiste al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità, e a quel modo che, or sono settantenni, un Napoletano dell’Antico regno o un Piemontese del Regno Subalpino si fecero Italiani non rinnegando l’esser loro anteriore, ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così Francesi e Tedeschi e Italiani e tutti gli altri si innalzeranno a Europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate ma meglio amate”.

Sono passati più di novant’anni dalle parole di Croce: l’Europa non è più un mero auspicio, ma una realtà concreta che, malgrado le crisi evolutive di ogni giovane organismo, è provvidamente cresciuta. Date queste premesse, l’Italia– per il suo retaggio storico “culla di civiltà” – non deve perseguire una politica guidata prevalentemente da meri orizzonti utilitaristici di un’ economia disancorata dai valori della cultura, della solidarietà e della libertà, con il pericoloso vuoto etico che ne deriva.
Al riguardo, sembra utile ripensare alle parole che nuovamente  Croce scrisse alla vigilia della Prima guerra mondiale, innanzi ad un quadro di riferimento non troppo dissimile dall’ attuale, e per di più a livello europeo. Egli notò che, caduta l’antica fede religiosa, venuta meno più tardi quella razionalistica, entrata in crisi quella liberale, nel Vecchio Continente erano dilagati avventurismi, avidità di godimenti, “frenetica smania di potenza, irrequietezza e insieme disaffezione e indifferenza, com’è proprio di chi vive fuori centro, fuori di quel centro che è per l’uomo la coscienza etica e religiosa”. Il cui recupero, ci sia consentito conclusivamente osservare, è la pre-condizione per il consolidamento morale, politico e civile dell’Italia come dell’Europa tutta, andando ben oltre la lamentata mancata menzione nella Costituzione europea delle nostre radici cristiane e romanistiche. L’importante non è tanto il non averle formalmente citate, bensì di non averne nella sostanza smarrito la memoria: questo sarebbe sì, in proiezione dinamica, la morte della civiltà europea, poiché non ci nobilita il nostalgico ricordo di ciò che fummo, quanto ciò che siamo chiamati ad essere, specie innanzi alle nuove generazioni, bisognevoli di esempi coerenti di costante esercizio virtù civili, più che di vuota ed ingannevole retorica.
Il risveglio oggi di egoismi nazionalistici, sovvenzionati da un’aggressiva Potenza continentale, erede di una struttura totalitaristica ed oppressiva, che mira ad acquisire un ruolo egemone nel Vecchio Continente, mediante la tattica dell’Impero romano del divide et impera, non va sottovalutato. L’aggressione all’Ucraina, è solo l’antipasto per il criminale disegno di disgregare l’Europa.

Tito Lucrezio Rizzo
(Avv.to, Prof.re, già Consigliere Capo Servizio Presidenza della Repubblica)

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