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uaderni de La Scaletta

Tu che non sai e splendi di tanta poesia

Ciò che resta lo fondano i poeti

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

 

“Ma tu, tu sei terra.
Sei radice feroce.
Sei la terra che aspetta.”
Cesare Pavese 

 

Le dieci poesie che compongono la raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, pubblicata postuma nel 1951, furono scritte probabilmente tutte a Torino tra l’11 marzo e l’11 aprile del 1950. Alla morte di Cesare Pavese, sono state rinvenute in una cartella nella scrivania del suo ufficio nella casa editrice Einaudi, riportante titoli, date e frontespizio di pugno dell’autore. Esse rappresentano la fine della stagione lirica inaugurata da Lavorare stanca, caratterizzata dalla poesia-racconto e traggono ispirazione dall’atmosfera di mitologia mediterranea già presente nei Dialoghi con Leucò, in cui l’io lirico trasfigura sé stesso e il paesaggio naturale della campagna piemontese in un luogo archetipico, denso di trame simboliche e abitato da riti selvaggi e primordiali. Queste suggestioni costituiscono la miccia che fa esplodere la serie di immagini che compongono le poesie della raccolta, dedicate all’attrice americana Constance Dowling. All’interno di questo apparato simbolico va aggiunta l’influenza esercitata dall’interesse del poeta per la religiosità e le sue manifestazioni nel culto e nei riti, per il sacro riferito all’umano e al naturale, e per la conseguente riflessione sulla sua violazione attraverso il sangue e il sesso.
L’interlocutrice del poeta, infatti, è un elemento di questa natura oscura e violenta, è una terra germogliante silenzio, è sangue di primavera che viola la terra, cioè il corpo e la mente dell’io lirico, che ne resta sconvolto e trema di un antico tremore. La figura femminile presente nei testi poetici subisce, quindi, una metamorfosi negli elementi naturali, come già era accaduto per l’Ermione dannunziana o come accadrà per la donna cantata dal poeta cileno Pablo Neruda.

Hai un sangue, un respiro.

Sei fatta di carne

di capelli di sguardi

anche tu. Terra e piante,

cielo di marzo, luce,

vibrano e ti somigliano –

il tuo riso e il tuo passo

come acque che sussultano –

la tua ruga fra gli occhi

come nubi raccolte –

il tuo tenero corpo

una zolla nel sole

(Hai un sangue, un respiro)

Grazie alla sovrapposizione tra la donna amata e gli elementi del paesaggio in cui l’io lirico è cresciuto, egli si riappropria della sua appartenenza a quei luoghi, ritrova le radici della sua storia e lei diventa la sua patria poetica. Il desiderio del corpo femminile è un’analogia che cela il voler possedere un luogo, fisicamente e storicamente presente al poeta, che appartiene ormai a un tempo lontano, che è immobile nei ricordi dell’infanzia ma che ha irrimediabilmente perduto la sua innocenza originaria. Per tentare di recuperare quei momenti, l’io lirico attua una regressione in cui coinvolge sé e l’amata, immaginandola bambina ma sotto un cielo diverso dal suo:

Acqua chiara, virgulto

primaverile, terra,

germogliante silenzio,

tu hai giocato bambina

sotto un cielo diverso,

ne hai negli occhi il silenzio,

una nube, che sgorga

come polla dal fondo

(Hai un sangue, un respiro)

D’altro canto, l’arrivo della donna nella vita del poeta è proprio ciò che simbolicamente ha violato la terra: come il vento di marzo risveglia e fa rabbrividire il paesaggio naturale, allo stesso modo l’interlocutrice dei testi ha riaperto il dolore con il suo passo leggero. Il poeta paragona la disillusione sentimentale e la conseguente solitudine – temi di cui scrive molte pagine anche nel diario Il mestiere di vivere – al gelo dell’inverno dentro il cuore profondo, uno stato di torpido sogno, assimilabile a chi più non soffre. L’arrivo dell’amata è sovrapponibile mitologicamente al ritorno di Persefone sulla Terra in concomitanza con l’arrivo della primavera, poiché anche la donna cantata dal poeta è un essere ctonio, portatrice di vita ma anche di morte:

Sei la vita e la morte

sei venuta di marzo

sulla terra nuda –

il tuo brivido dura.

Sangue di primavera

– anemone o nube –

il tuo passo leggero

ha violato la terra.

Ricomincia il dolore.

(You, wind of March)

L’antitesi luce-buio è proprio un altro elemento di questa duplice caratterizzazione femminile che si ritrova in quasi tutte le poesie della raccolta: da un lato la donna è portatrice di luce, appare al mattino, i suoi occhi sono dolci gocce dell’alba e il suo passaggio è come il vento dell’alba; dall’altro lato, invece, giunge come un presagio di morte, la visione che l’io lirico ne ha diviene notturna, la sua presenza buia e angosciosa:

Stella sperduta                                                       Anche la notte ti somiglia

nella luce dell’alba,                                               la notte remota che piange

cigolío della brezza,                                              muta, dentro il cuore   profondo

tepore, respiro –                                                     e le stelle passano stanche (…)

è finita la notte.                                                      Sei distesa sotto la notte

Sei la luce e il mattino.                                          come un chiuso orizzonte morto.

(In the morning you always come back)                                 (The night you slept)

Il culmine lirico segue la seconda suggestione, quella luttuosa, che negli altri testi è solo accennata; il vizio assurdo che accompagna l’autore fin dall’adolescenza, il baratro autodistruttivo su cui si sporge di tanto in tanto nella vita come nell’opera, e che da lì a pochi mesi lo inghiottirà definitivamente, ispira la poesia più celebre dell’opera e che dà il titolo alla raccolta: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Il testo è una profezia che si avvera, è guardarsi allo specchio e scoprire che la poesia in particolare, la letteratura in generale, hanno già messo profonde radici e crescono dentro il nostro corpo come una pianta rampicante, e come l’edera prediligono l’ombra o una parziale esposizione al sole. La discesa silenziosa nel gorgo, con cui si chiude la lirica, è una catabasi da cui non si torna indietro, è l’orizzonte ultimo scelto da Pavese e che egli abbraccia a partire dagli occhi della sua amata, dal suo sguardo.
Non sempre l’amore e l’arte, l’amore e la letteratura ci salvano la vita, la dilatano nello spazio e nel tempo, la assolvono dalle colpe e dalle paure che essa reca con sé, a volte rappresentano la miccia con cui l’esistenza esplode, brucia e lascia dietro di sé cenere nel vento, anche se il vento è quello di una nuova primavera.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

questa morte che ci accompagna

dal mattino alla sera, insonne,

sorda, come un vecchio rimorso

o un vizio assurdo. I tuoi occhi

saranno una vana parola,

un grido taciuto, un silenzio.

Così li vedi ogni mattina

quando su te sola ti pieghi

nello specchio. O cara speranza,

quel giorno sapremo anche noi

che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Sarà come smettere un vizio,

come vedere nello specchio

riemergere un viso morto,

come ascoltare un labbro chiuso.

Scenderemo nel gorgo muti

Vittoria Natalia Abate
(Dott.ssa in Filologia moderna e linguistica ed insegnante)
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Immagine di Vittoria Natalia Abate

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