Una volta Robert Schumann, dopo aver eseguito un suo brano, per rispondere alla domanda di un ascoltatore che chiedeva quale fosse il significato di quella musica, tornò al pianoforte e risuonò per intero la stessa composizione. In questo modo aveva voluto dire che il significato profondo della musica è nella musica stessa e che ogni tentativo di traduzione del linguaggio musicale in linguaggio verbale, malgrado i tratti in comune fra le due forme di espressione, è destinato a restare incompiuto.
La musica, infatti, ha per sua natura l’ambiguità di un discorso espressivo che non esprime nulla, o che forse esprime troppo.
Tuttavia, è altrettanto vero che provare a superare queste difficoltà, costruendo dei ponti per avvicinarsi ai territori dell’ineffabile, è una sfida estremamente avvincente. Mi è sembrato che il tema di questo numero dei Quaderni potesse emergere più chiaramente mettendo a confronto due composizioni, la seconda delle quali, la mia Satie’s faction, affonda evidentemente le radici nella prima, la celeberrima e direi iconica Gymnopedie n. 1 di Erik Satie. Il brano di Satie è uno di quelli che tutti avranno ascoltato molte volte, forse persino nelle sale d’attesa, negli ascensori degli aeroporti o al telefono, nel tempo che può scorrere interminabile prima che si riesca a parlare con l’operatore giusto di un call center. Proprio il suo carattere contemplativo e irenico avrà spinto qualche esperto di comunicazione ad utilizzarlo in situazioni in cui è facile prevedere un calo vertiginoso di pazienza e tolleranza.
È sorprendente vedere come Satie, con una scrittura essenziale e quasi scarna, riesca a creare una musica che sembra un incantesimo, un balsamo per lo spirito, una terapia ipnotica. Spesso i pianisti giudicano questa musica troppo semplice e preferiscono proporre repertori che permettono di sfoggiare capacità virtuosistiche particolari.
È comprensibile che piaccia suonare Chopin, Schumann, Brahms, Rachmaninov, tutti compositori che hanno scritto composizioni con un coefficiente di difficoltà ben maggiore, se vogliamo misurare la musica con questo parametro piuttosto grossolano. Anche a me non era mai capitato di suonare Satie in récital prima di quest’anno, al di là di un concerto commemorativo di qualche tempo fa.
Aver presentato recentemente questo pezzo mi ha portato a considerare una cosa forse ovvia, ma che è bene tenere sempre a mente quando si suona: l’interesse dei compositori che eseguivano le loro opere era far conoscere la loro musica, non mostrare la loro abilità nel suonarla. Il corollario di questa ovvietà, un po’ meno ovvio, è che l’unico compito dell’esecutore è essere in completa armonia con ciò che sta suonando, senza alcuna preoccupazione dell’effetto che quell’esecuzione avrà: la musica vera (e qui non mi addentro in ulteriori definizioni che ci porterebbero troppo lontano) ha sempre una forza grandissima, senza che la si appesantisca con gli artifici tipici di tanti musicisti di oggi (eccesso di velocità, soprattutto, e volontà di stupire a tutti i costi: entrambe le cose segno di una scarsa fiducia nella potenza intrinseca della musica).
Il pezzo del secondo video è una mia composizione. Satie’s faction ha già nel titolo il suo carattere giocoso: la Gymnopedie diventa, in un gioco di travestimenti, un jazz waltz che ho scritto come ninna nanna per la mia prima figlia. Rifletto adesso su quanto sia singolare che, in un’occasione così speciale per me, abbia scelto di scrivere un pezzo citando la composizione di un autore che praticamente non avevo mai affrontato. Evidentemente mi stavo orientando inconsciamente verso la bellezza del poco.
Poche note, cercare l’essenza e limitare l’intellettualismo per tornare alle radici del senso.
Pier Francesco Forlenza, Satie’s faction