Nell’immediato Dopoguerra la Basilicata si vide catalogare come “terra incognita”. Una descrizione da prendere con massimo rispetto, perché formulata dall’archeologo Thomas James Dunbabin, il primo dei tre personaggi fuori dall’ordinario di cui si fa conoscenza in queste righe, tutti e tre intrecciati con le radici della Basilicata.
Nato in Australia nel 1911, subito dopo il college continua gli studi classici a Oxford e partecipa, da neofita, a un campo di scavo in Sicilia. Qui scocca la scintilla con l’universo greco antico e, tornato in Inghilterra, ottiene il Ph.D. difendendo una tesi sulla colonizzazione greca dell’Italia meridionale. Il tema specifico riguarda i rapporti, allora ancora tutti da scoprire, tra i nuovi arrivati e gli indigeni.
TJD non fa in tempo a ottenere il titolo che gli viene offerta una posizione di assistente presso la British School of Archaeology di Atene. Destinazione Cnosso, Creta, dove la Scuola stava raccogliendo l’eredità di Sir A. J. Evans, il padre delle due Lineari. Allo scoppio della Guerra viene arruolato e inviato in Egitto ma, con l’occupazione di Creta dalle forze dell’Asse, viene spostato lì per aiutare la resistenza locale.
Per i partigiani è Mr. Shepherd, dalla mantella nera col cappuccio tipica del luogo. Si aggira travestito sulle colline, scruta dall’alto, spesso si arrampica sugli alberi.
Le stesse identiche cose che aveva l’abitudine di fare per cercare intuizioni archeologiche. Finita e vinta la guerra, diventa un Monument Man con il compito di valutare i danni al patrimonio artistico, storico, archeologico, e di recuperare pezzi mutilati, rubati e immessi sul mercato nero. Nel frattempo ha di nuovo una fellowship a Oxford come Reader in Classical Archaeology e può viaggiare per i suoi studi, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia.
Prima di essere consumato da un cancro al pancreas (morirà nel 1955), TJD fa in tempo a scrivere due volumi enciclopedici, uno dedicato ai
Greci dell’est e uno a quelli dell’ovest. In questo secondo The Western Greeks, on the Greek colonisation of Italy from the eighth to the early fifth century BC , racconta la Magna Graecia e propone la tesi, che adesso sembra ovvia ma allora tutt’altro, di una lenta contaminazione reciproca tra nuovi arrivati e indigeni senza programmate invasioni ostili.
Racconta che, passata Τάρας e prima di entrare in Sibaritide, c’era una porzione di costa di oltre cinquanta chilometri impenetrabile, paludosa per lunghi tratti, coperta da fitto bosco acquatico tra le foci dell’Agri e del Sinni. La boscaglia si propagava nell’interno seguendo i corsi dei due fiumi, e a chi vi si addentrava si apriva un panorama di piana, a grano e pascolo, e subito oltre colline e crepacci, con densità umana bassissima e vie di comunicazione da conquistarsi palmo a palmo.
Tutto appariva intonso, fermo a chissà quale secolo prima. Basilicata terra incognita. Eppure, era solo lì, tra l’Agri e il Sinni, che sotto costa l’acqua del mare arrivava ad assumere colorazioni particolari, forse per l’intreccio delle propaggini più piccole delle radici, forse per i succhi e i sedimenti vegetali filtrati da quel grande polmone del Bosco Pantano.
In Basilicata TJD trova quello che non aveva trovato prima: οἴνωψ πόντος, il “mare che agli occhi ha color del vino” di cui Omero parla più volte nell’Odissea e nell’Iliade. E ci scherza sopra.
Quando TJD chiudeva le sue ultime fatiche editoriali, Dinu Adamasteanu era solo un promettente ragazzone nato a Topuru, Romania, nel 1913.
È lui il secondo personaggio da romanzo. Avviati gli studi di storia e archeologia, è possibile che avesse già letto l’altro volume di TJD dedicato ai Greci dell’est – Greeks and Their Eastern Neighbours: Studies in the Relations Between Greece and the Countries of the Near East in the Eighth and Seventh Centuries BC – quando nel 1935 partecipa, da neofita, agli scavi di Histria, colonia di Milo sulle rive del Mare Nero.
Fu una delle prime volte che utilizzò la tecnica della fotografia aerea per lo studio del territorio. Grazie al sostegno dell’Accademia di Romania di Valle Giulia, quel promettente giovane si trasferisce a Roma e perfeziona gli studi alla Sapienza laureandosi con Gaetano De Sanctis.
Gli anni che seguono sono densissimi di eventi. Allo scoppio della Guerra resta in Italia per finire gli studi, e poi, dopo il 1945, decide di rimanerci per sottrarsi alla svolta politica in Romania, definitivamente sotto l’ombrello sovietico. Questa scelta gli costa, oltre a un lunga separazione dalla sua famiglia di origine e dalla sue radici, anche la perdita della cittadinanza. Non ha ancora quella italiana e diviene un apolide con obbligo di presentarsi al campo profughi di guerra di Bagnoli.
Ma è tutt’altro che apolide per le scienze e la comunità accademica che lo apprezzano, e viene arruolata per una serie di campagne di scavo in Sicilia che saranno la sua prova di maturità: prima a Siracusa e Lentini e poi, con compiti di direzione, a Butera e Gela. Lì, oltre a quelle dello scienziato, si svelano definitivamente le altre qualità: il gioco di squadra, l’attenzione alla formazione dei più giovani, il dialogo costante con le persone del posto, le abitudini contadine del piccolo villaggio natale che aiutarono a inserirsi nel contesto e capirlo.
Dopo la Sicilia, per DA si apre un altro incarico di rilievo. Gli viene chiesto di applicare l’esplorazione aerea a un’ampia area attorno al delta del Po. Il centro di interesse sono gli scavi di Spina, una della città più a nord tra quelle di fondazione etrusca, ma in realtà è in gioco ben altro.
I piani di industrializzazione e di crescita delle aree urbane hanno portato in primo piano il bilanciamento tra le esigenze di crescita, lavoro, benessere e quelle della conservazione dell’ambiente in senso ampio.
La lettura del territorio dall’alto permette di non rimanere indietro rispetto ai ritmi veloci dell’economia e di intervenire per orientare, salvaguardare, salvare. Non si tratta solo di non perdere il passato, ma anche di evitare di fagocitare il futuro sovvertendo gli equilibri naturali o dissipando ricchezze non riproducibili. Sarà uno dei temi dominanti del nostro tempo.
L’esplorazione aerea è talmente innovativa che a DA viene chiesto di aggregarsi alle campagne di scavo internazionali guidate dall’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente. Le più famose restano quella di Cesarea Marittima, in Israele, e di Ghazni, in Afghanistan orientale. È qui, lungo la polverosa strada carovaniera tra Zaranj e Kandahar, che accade qualcosa di davvero romanzesco. In quel quadrante del globo, rarefatto e desertico, dove ancora riecheggiavano le mosse spregiudicate di spie, avventurieri e sudditi di Sua Maestà degli Inglesi impegnati nel Grande Gioco, avviene un incontro premonitore.
DA incontra un ragazzo in gamba che si è fatto da solo, Rocco Mazzarone: nativo di Tricarico, inizia a studiare in seminario e poi continua iscrivendosi a medicina a Napoli e perfezionandosi a Novara e a Milano; poi soldato in Libia e in Egitto, dopo la battaglia di Bardia è catturato dagli Inglesi, rinchiuso in un campo di concentramento e, scoperta la sua professione, comandato a dirigere l’ospedale militare di Suez. Dopo la Guerra, insegna statistica applicata alla medicina all’Università di Bari e, soprattutto, diventa responsabile del Dispensario della Provincia di Matera (in quegli anni non esisteva il SSN), impegnato nel contrasto delle malattie allora endemiche tra i contadini, come tubercolosi, malaria, anemia mediterranea, infezioni dell’apparato respiratorio e gastro-intestinale.
Si trova nel Belucistan iraniano per conto dell’Agenzia nazionale Italconsult, come esperto proprio di queste malattie, endemiche anche lì. È solo una delle diverse missioni internazionali di RM, in quegli anni del Dopoguerra una eccellenza italiana nelle sue materie. È lui il terzo personaggio da romanzo. Chissà se qualcuno si è mai premurato di chiedere a entrambi se, quando si sono dati l’addio, non sembrò subito loro di dire una clamorosa bugia. Di lì a qualche anno, nel 1964, DA approda in Basilicata. C’era tutto da costruire, a cominciare dalla creazione ex-novo della Soprintendenza archeologica. Punto di partenza: la terra incognita e senza radici del Dunbabin. Deve fare in fretta DA, perché, se da un lato ha la fortuna di avere a disposizione una Regione vergine, dall’altro si è aperta la “gara” con le forze propulsive delle Riforma fondiaria e dei piani di infrastrutturazione e industrializzazione.
Piano piano, cominciano ad arrivare i frutti del lavoro suo e del suo team multidisciplinare. In circa di quindici anni di appassionata e rigorosa attività, le radici della Basilicata tornano alla luce e sono presentate al pubblico attraverso eventi nazionali e internazionali e una nuova rete di musei, antiquarium e parchi archeologici.
Nel 1947 va in stampa il volume “La Basilicata Antica” (1974), opera antologica di tutte le scoperte. Sulle radici il Dunbabin si sbagliava; non si sbagliava, tuttavia, sulla lettura dei rapporti tra indigeni e coloni greci. Nel volume DA sviluppa accuratamente la tesi che le relazioni tra l’Egeo e lo Jonio si sono andate rafforzando nei millenni, occasione dopo occasione, contatto dopo contatto, a tal punto che, quando le comunità a prevalenza greca sono diventate più stabili e strutturate, e poi anche più ricche e più forti di quelle dell’entroterra, si è trattato solo di un ulteriore passaggio di un fisiologico e osmotico rapporto tra genti abituate a interagire e a mischiarsi, anche passando attraverso fasi alterne.
Anche quando lascia la direzione della Soprintendenza, DA rimane in Basilicata, a Policoro, sulla collinetta di Troili. Ormai ha messo radici.
Un amico, in particolare, se lo porta dietro da tanto tempo, dalla giovinezza. Uno conosciuto per caso e per strada, come nascono le migliori amicizie. Anni dopo quell’incontro casuale in Afghanistan, si ritrovano nella Piana Metapontina, sui campi dove le ragioni dell’archeologia contendevano metro quadro per metro quadro alle ragioni della Riforma agraria e dell’industrializzazione.
Deve essere stato un altro momento commovente, con il faccia a faccia delle migliori energie che allora si affannavano a creare futuro in Basilicata: da un lato Dinu, per la salvaguardia di Natura, bellezza, memoria; dall’altra Rocco, per l’assistenza sanitaria e la prevenzione portata fattoria per fattoria nei poderi di cui i contadini potevano finalmente dirsi padroni. – “Mi venga a trovare a Troili. Le mostro quello che stiamo tirando fuori nella piana. Di lì si vede anche il Bosco Pantano e, oltre il bosco, il mare” – “Ora mi faccia andare ché sono in ritardo, ma giuro che vengo. Il vino lo porto io da Tricarico. Dopo qualche bicchiere mi dirà di che colore le sembra il mare in lontananza. Darà ragione a Omero: οἴνωψ πόντος!” –
Sono mancati a breve distanza l’uno dall’altro. Adamesteanu a Policoro il 21 gennaio 2004, Mazzarone a Tricarico il 28 dicembre 2005, dopo vite ben spese. In Basilicata si era già da tempo spento il fervore rigenerativo e creativo degli anni Sessanta e dei primi Settanta. Erano arrivati i tempi dei ripensamenti sui limiti della Riforma, sugli errori dei piani industriali, sulla poca lungimiranza della progettazione delle infrastrutture, persino sull’incompiutezza della riscoperta dell’antico. Eppure, in quegli anni la Regione riuscì a cambiare volto.
Non è affatto facile riconoscere quali di quei semi lanciati allora stanno dando, anche inaspettatamente, qualche risultato oggi e possono continuare a fruttare in futuro, ma è obbligatorio fare tutto il possibile, guardando in particolare alle nuove generazioni. In questo percorso di necessità è tutt’altro che superfluo orpello il racconto di vite avventurose e concretissime, che hanno fatto il giro del mondo e poi sono tornate a svolgersi qui, lasciando segni che ancora parlano di passione, senso del dovere e fiducia nel cambiamento. Anche queste vite sono adesso parte delle nostre radici, di un nostro moderno mito civile da tenere garbatamente acceso.