“Dio dice al suo poeta:
Ti ho scelto perché
m’informi sulla mia identità”.
Alain Bosquet
Il mare è un trattato di pace tra le stelle e la poesia.
Racconta uno dei più antichi miti che la testa di Orfeo figlio di Eagro, decapitata dalle donne di Tracia, trascinata dalle correnti del fiume Ebro, approdasse sulle sponde di Lesbo, patria di Saffo, da dove fu portata in una grotta, ad Antissa, e lì continuasse a cantare in eterno…
Il poeta è il luogo in cui le forze del tempo tendono a equilibrarsi. La poesia, lo affermava Leopardi, non è mai contemporanea. Non è in sintonia con l’epoca. Vive d’altro, con altro. Questa alterità è la sua ostinazione. Il verso è la lingua che ospita l’accadere, e spesso questo accadere appartiene solo al tempo e allo spazio della propria interiorità e delle proprie radici. La poesia ha una propria riconoscibilità salvifica perché si lega ad una sfida contro la deperibilità e il senso di finitudine, un canto rosato che scorre nelle vene, lievito della carne. E’ la parola che classifica e dà ordine al mondo e il verbo immaginoso che lo reinterpreta.
Orfeo fu anche il primo a introdurre l’alfabeto, che aveva appreso dalle Muse, come si legge dall’epigramma inciso sulla sua tomba: “I Traci qui posero il ministro delle Muse, Orfeo, che Zeus dominatore dall’alto uccise con la folgore fuligginosa, il figlio di Eagro, che fu maestro di Eracle, e scoprì per gli uomini le lettere dell’alfabeto e la Sapienza”. E’ sul bordo del verso che la vita attende l’attimo eterno.
Come la pietra raggiunge l’acqua che dorme
Raccogliere fiori è diverso dal mietere un campo. Il fiore non ha bisogno di essere messo a vomere, di dare frutto: sazia da sé. E’ l’occhio della terra che guarda con luminosa sorpresa.
Il Rinascimento italiano fece dell’aspirazione al sapere il proprio crisma: una pittura mentale, in cui il simbolo non era accessibile a tutti (i ‘segni’ che costellano le cattedrali, che i fedeli riconoscono) ma cifrato, esoterico, per pochi. La nobiltà della forma è scandita dalla norma ermetica, evade dalla carne. La perfezione è un bagliore velato, una leggera fosforescenza, un tocco iridescente nell’estro di una nuvola.
Ma la Controriforma (il Concilio voluto da Paolo III e tenutosi a Trento nel 1545, per restaurare una più intensa, viva, sincera e disciplinata vita religiosa), innescò sorprendentemente la stagione del Barocco, di cui Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 7 dicembre 1598 – Roma, 28 novembre 1680) fu il grande protagonista. Per Bernini, scultore, architetto e genio, la carnalità era totale (far sanguinare il marmo…) e il ‘teatro’ era l’avvenimento del mondo. La ‘finzione’ non serve per fuggire dalla terra ma per raccontarla, per morderla. Il compito dell’arte barocca è trasfigurare le forme, dare voce ai marmi: non capire, ma cadere. La spirale, rispetto al dominio platonico della sfera, non confonde più: ispira, richiama alla voluttà dell’angelo, alla presenza di cose vive, pronte agli altri mondi, come i paradisi di Petrarca e i panorami del Giambellino e di Mantegna.
Il cosiddetto “aspetto” inventato dal Rinascimento e dotato d’una profondità tutta sua, indipendente dall’esistenza che lo recava, ma moltiplicato, sovrabbondante, si dissolve per ciò stesso in una presenza totale e di nuovo immediata. L’apparenza, questo mondo chiuso della pittura rinascimentale, un essere meramente spettrale nel cui inseguimento può smarrirsi lo spirito stregato, ridiventa invece apparire, che unisce anima e corpo e pur senza pretendere nulla è tutto. L’ambizione suprema di adeguare il cuore umano alla dimensione di tutta la vita.
Bernini attingerà in particolar modo alle elaborazioni del Rinascimento pur affermando un altro valore della bellezza, non più cifra ma tatto, non emblema ma corpo. La nuova bellezza non è più l’instabile istituzione d’una essenza inaccessibile, ma una forma sublime che appartiene a questo mondo; ed è anche l’adesione fiduciosa che guida l’uomo verso quella realtà. L’arte perfora l’ombra e scopre il punto da cui sgorga la luce. L’eros non è moto che conduce ad altri sensi, ma sensazione terrestre, l’estasi porta l’anima a Dio sconvolgendo il corpo nell’eccitazione d’amore.
Nella concezione estetica ed artistica di Gian Lorenzo Bernini vi è la consapevolezza che il male (segreta meditazione d’ogni esperienza artistica…) non è che l’uomo sia immerso nel tempo, votato alla finitudine, costretto alla morte, ma che di quella finitudine, e di quella morte, egli abbia paura. Il Barocco è l’arte che salva. Non bisogna avere paura della morte poiché tutto è già ora, è nell’istante stesso, è risolto.
E fu proprio con tale consapevolezza che Bernini rappresentò così spesso e con tanta arditezza i segni più tangibili della morte (saper scavalcare una tomba spalancata senza che, per questo,venga in orrore la vita…). Il genio dell’arte è tradurre la morte in vita, vanificare il male poiché ogni cosa è redenta; la passione oltre la mente, l’amore oltre la fede. Il genio è il sangue del pianeta.
La Parola che cuce il giorno alla notte
Nelle sue “Confessioni” Sant’Agostino considerava un errore affermare che i tre tempi fossero: passato, presente e futuro. Riteneva più esatto sostenere che i tempi erano: presente del passato, presente del presente, presente del futuro.
Il presente della luce stellare che vediamo è sempre un presente remoto, e chi contempla un raggio di luce è solo un archeologo che si sta immergendo nei misteriosi abissi astrali dell’universo.
Oggi la parola “scientifico” assolve alla stessa funzione che aveva un tempo la parola “religioso”. Come tutto ciò che veniva chiamato religioso doveva essere considerato assolutamente vero per il fatto stesso di essere chiamato religione, così tutto ciò che viene chiamato scientifico viene considerato assolutamente vero per il semplice fatto di essere chiamato scienza. Eppure il soprannaturale ha ancora le sue leggi e benché esposto a tutti i malintesi del mondo, è sempre profondamente ancorato alle leggi misteriose dell’eternità e là soltanto ha validità e compimento.
Di fatto le due teorie pilastro della fisica moderna sono la relatività generale di Albert Einstein, che delinea la geometria dello spazio-tempo impressa dalla gravità, e la meccanica quantistica (che si occupa della fenomenologia relativa alla materia e alla radiazione a scale atomiche e subatomiche) le cui leggi sono intrinsecamente probabilistiche, e lasciano ampio spazio alla casualità. Ma alcuni fisici e filosofi propongono un approccio per cui la teoria quantistica potrebbe essere la chiave per spiegare perché l’universo è quello che è e non un’altra sua versione. Così come noi siamo natura, fede e tempo e non altro. Aria rapidissima da cielo a terra estesa nella luce come radici, mentre stelle impassibili ruotano vorticose nelle nostre feritoie.