L’ origine della questione femminile in occidente ha una voce, un corpo che fu violato da medici a difesa del proprio prestigio. Furono le loro mani sudice a provocare, seppure inconsapevolmente, la morte di Mary Wollstonecraft Godwin, la madre di Mary Wollstoncraft Godwin Shelley, detta Mary Shelley, l’autrice del Frankenstein o Il Prometeo Liberato, morta di setticemia- parola che spesso copre pietosamente un assassinio.
La medicina dell’epoca non serviva le donne. Di scarsa rilevanza il fatto che rischiassero la vita a ogni parto. Era un loro dovere fare figli. Del resto la Genesi 3:16 parla chiaro: ‘partorirai con grande dolore…eppure il desiderio ti spingerà verso il tuo uomo ma egli ti dominerà’ parole che da sole e prese per vere potrebbero indurre al suicidio o al desiderio di un cambio di sesso. Data la sentenza divina non restava che lasciar fare al ‘destino’ del femminile, meglio se compiuto alla lettera perché tinto di disprezzo, luce rossa di una colpa. Qual è il dolore massimo per una donna madre se non quello di morire a seguito di una gravidanza?
Quale è il suo atto più ‘eroico’ se non quello di scegliere di morire pur di mettere al mondo un figlio? Tale ‘destino’ è duro a morire: segnale storico di massima disuguaglianza di genere.
La scoperta dello streptococco arrivò troppo tardi per Mary Wollstonecraft, l’autrice de La rivendicazione dei diritti delle donne, la pioniera del femminismo, una filosofa di sconcertante modernità e una educatrice visionaria. Tuttavia fu soccombente. Di un uomo in particolare che la manipolò e per cui tentò il suicidio ben due volte, e,infine dei medici ignoranti contro cui nulla poté. Genesi a parte – ma non tanto, perché sappiamo quanto la relatività culturale, sopratutto religiosa si arroghi il diritto del ‘sapere’, di camuffare la natura e andare contro di essa, il corpo del ‘femminile’ –luogo di piaceri, merce di scambio senza diritto- una volta divenuto partoriente, si trasformava in nauseabonda materia organica.
Perché dunque la necessità di usare accortezze igieniche e mondare ciò che era stato profanato, contaminato, in una parola ‘sporcato’?
E fu così che dalla stanza dell’obitorio si passava alla stanza della puerpera, spesso attigue.
A questa causa efferata di mani sudice che provocarono la morte di una madre, a questo ‘destino’ infausto del femminile seguì un effetto.
La figlia, un’altra Mary, a calcare sul doppione, nata viva da una madre che per averla fatta nascere morirà 11 giorni dopo, gettata ad essere, senza un seno e senza la carezza materna, da adulta prone sulla tomba della fu genitrice a fantasticarne il risveglio come fosse una revenant – esordì a diciannove anni con un graffio al mondo, debordante, provocatorio e rivoluzionario. Il suo sogno – effetto – realizzazione – letteraria fra i più immarcescibili, tali alla madeleine della Recherche di Proust, fu un’ambizione inconscia di sicuro: riportare in vita ciò che la morte aveva deglutito, di trovare una connessione fra vita e morte o morte in vita in ciò che si era spezzato durante un ciclo naturale mai riconosciuto come tale, mai accettato. Come il suo protagonista scienziato, il dottor Frankenstein, Mary scavò nelle cripte della sua mente, negli ossari antichissimi di un’ immaginazione senza tempo né spazio per rubare l’identità alla madre e farsi così amare dal padre. Volle la figlia inglobare a sé la madre, farsi un prolungamento stesso delle sue capacità e, addirittura Mary inventò una sua strada per ricomporre il corpo materno, volle ricucirlo, rappezzare, rabberciarlo. Dunque le mani sudice assassine dei medici che provocarono la morte della madre, si sostituirono all’azione di una scrittura che favoleggiava sulla ricomposizione di un corpo perduto. Oltre al senso di colpa, la ferita di quella morte venne ereditata dalla nostra scrittrice, ebbe un seguito, non venne cancellata.
Il progetto e la realizzazione dell’opera fu un graffio violento, un gesto simbolico altamente rivoluzionario: l’autrice più che ‘uomo’, più che Dio, si fece Prometeo che strappa il fuoco agli Dei per regalarlo all’umanità intera rendendola protagonista del proprio destino. Se ne deduce che Mary Shelley regalò a se stessa e al suo pubblico la capacità della creazione di una Creatura che è vittima ma anche carnefice di se stessa che nello stesso tempo è anche un Prometeo Liberato perché il sottotitolo evidenzia una congiunzione, una ‘o’ (Frankenstein or the Prometeus Unbound) che mette sullo stesso piano i due soggetti.
Perché Prometeo è così importante al pari di Frankenstein? E duole il fatto che in alcune traduzioni italiane tale ‘sottotitolo’ venga evirato.
Prometeo – ritenuto colui che pensa prima di agire nonché inventore della scrittura – è l’asse portante dell’umana natura che si libera dalle catene e dalla manipolazione che ne fanno ‘i poteri forti’. Anche questa azione efferata però ha degli effetti: l’azione, benché illuminata, ha conseguenze nefaste: provoca l’ira di uno Zeus invidioso che si traduce in un supplizio atroce: fa incatenare Prometeo, nudo, a una vetta del Caucaso, dove un avido avvoltoio gli divora tutto il giorno il fegato che ricresceva durante la notte. La fantasia ‘scellerata’ di Mary Shelley – di cui quasi si vergognò, attribuendo le colpe al suo cervello per avere ‘partorito’ ‘infamante progenie’- e così definì la sua opera- non proveniente da un sogno o da un incubo ma da qualcosa che le arrivò dall’ignoto ad occhi aperti, cioè ‘vide la scena’ dichiarandosi ‘vinta’ da una sorta di allucinazione da sveglia. Tale ‘visione’ – uno scienziato che opera su un cadavere- e tale realizzazione a livello narrativo le costò sul piano privato (la punizione del cielo? del suo doppio? del fallimento di un ardito sogno di potenza? di un senso di colpa che invece di estinguersi riciclava se stesso?) il supplizio di vedere morire tre dei suoi figli, due suicidi, uno della sorella Fanny per essere stata da lei abbandonata, e Harriet, la moglie di Shelley dopo essere stata da lui abbandonata a causa di Mary e infine dall’uomo che amava, Percy Bysshe Shelley, il sommo poeta romantico inglese che annegò nelle acque fra Lerici e Viareggio. Per sempre orfana produsse e visse più morte che vita attorno a sé, come a dire: c’è un poco di Frankenstein- scienziato e creatura, c’è un poco di Prometeo in ognuno di noi: due archetipi: l’orfano e il creatore. L’orfano senza nome –chiamato ‘it’ in lingua inglese, ‘l’animaletto’, come senza nome resta la Creatura che viene abbandonata dal suo creatore e di cui per errore di attribuzione porta lo stesso nome del suo creatore, il dottor Frankenstein appunto. Mary Shelley incarna così due archetipi: l’orfano, colui che ha subito il trauma dell’abbandono e il creatore che ricuce i pezzi del passato che non c’è mai stato, che ha la forza di reinventarsi, che diventa muratore di se stesso.
Quando fu dato alle stampe il Frankenstein, o il Prometeo Liberato, non c’era scritto sul frontespizio del libro il nome dell’autrice. Nessun problema. Quanta credibilità poteva suscitare un adolescente di 19 anni, femmina oltretutto? Il testo fu attribuito tout court al marito di Mary, Percy Bysshe Shelley. Portava una dedica al padre dell’autrice, il filosofo anarchico William Godwin di cui Shelley era stato un grande estimatore.
Anche lei, a diciannove anni, al suo debutto letterario, era ancora un ‘it’ che nei secoli avrebbe però superato la fama di marito e padre. Al suo apparire sui manifesti della prima rappresentazione teatrale, Shelley commentò: ottimo questo modo di nominare senza nome l’innominabile. ( N.d.r. ‘……’)
La stesura del …. avvenne in diciotto mesi, in un periodo solo in apparenza tranquillo nella vita di Mary. Dentro di lei erano scoppiati, al contrario, scoppiarono terremoti, angosce sovrumane, debolezze inespresse, rabbia incontenibile. La somma di tutte le sue tensioni però fu pari all’eruzione di un magma interiore romantico raccolto e livellato da una penna illuminista. La tensione etica ebbe anch’essa la sua parte: il Frankenstein può essere anche concepito come un estremo atto di ribellione contro il pregiudizio del diversamente dotato –storpio, brutto, mostruoso, negro, africano – categoria degli infimi e degli ultimi, degli eretici, degli svergognati condannati dalla società, di quelli che stanno al lato opposto dei cancelli di piombo del Paradiso, per avere osato sfidare le leggi divine -a cui lei sentiva di appartenere. Ma c’é qualcosa in più in questa creazione, qualcosa che va al di là di una semplice indagine del profondo. Ha molto da dirci ancora quest’opera che sembra avere in sé una spinta propulsiva autonoma come una sorta di archetipo proveniente da chissà quale mondo. Scritto da chissà quale mano.
Dunque, ancora una volta ci arriva a noi in forma ‘anonima’, almeno nella prima stesura, quella del 1818, in modo da essere noi lettori ogni volta gli autori stessi, i fruitori di una storia che ha in noi una profonda eco. Chi è libero da abbandoni scagli la prima pietra. Chi non ha pianto per qualcosa di caro che ci è stato sottratto faccia altrettanto. Chi non ha tentato di incollare una ceramica preziosa scaraventata a terra, scagli il primo macigno. Leggiamo e riscriviamo la nostra storia, una storia simile a quella del Frankenstein, assumendo ognuno le vesti dei protagonisti ed essendo costretti, dalla storia stessa, ad essere a turno tutti i suoi personaggi. Dicevamo l’archetipo dell’orfano e del creatore.
L’ostracismo perché femmina adultera e anticonvenzionale, assieme alla condanna sociale, nonostante poi il suo matrimonio riparatore del 1817 con il poeta, perseguitò Mary Wollstonecraft Godwin Shelley fino alla fine dei suoi giorni. Ignorò la sua fortuna letteraria e mediatica nei secoli a venire perché aveva inventato un prototipo. Invece Mary Shelley si dedicò negli ultimi anni della sua vita a mettere ordine nelle pasticciate versioni dell’opera di suo marito, Percy Bysshe Shelley, fra i più grandi poeti romantici inglesi, che morì prematuramente naufrago nelle acque fra Lerici e Viareggio lasciando questo mondo prima di veder pubblicate la maggior parte delle sue opere. Shelley ignorò che la sua fortuna sarebbe poi dipesa in gran parte dalla pubblicazione post mortem dell’opera omnia da parte della moglie che fondamentalmente scrisse solo un libro importante che a lei venne a noia e fastidio, nel tempo ma di cui mai riuscì a liberarsi.
Se l’aspetto orrorifico del Frankenstein ha prevalso nel mercato della paura, prodotto in generale dai media in tempi moderni – c’è ancora molto da scavare in questo prototipo letterario. Tante le domande che ancora suscita: fino a dove si può spingere la responsabilità degli scienziati? Quali potrebbero essere gli effetti dell’intelligenza artificiale sulla mente umana? fino a quanto ci si può spingere nell’accettare il ‘diverso’ da noi? Quanto ci è dato accettare o almeno riconoscere i neri abissi dell’anima nostra senza proiettarli sull’altro?
In buona sostanza quanto c’è del carnefice Frankenstein in ognuno di noi? E’ per questo che in modo paradossale, non stabilito dall’autrice ma di comune ‘convenienza e istintività’ abbiamo assunto, noi lettori, il concetto irrazionale che Frankenstein sia il nome del mostro quando non lo era nelle intenzioni dell’autrice?
Chi è dunque l’innominabile o l’innominato? Perché, si sa che trattasi, nella storia, del cognome di Victor, il suo ‘inventore’ che si chiama appunto Victor Frankenstein. Dunque è un doppio. O un triplo. Lo fu per Mary come lo fu per il dottor Frankenstein, come lo è per i lettori: il Frankenstein vero e quello ‘falso’ si sommano nella sua unica ombra, nella nostra immaginazione. Entrambi sono complici e portatori di umanità, violenza e destino.