Senza mai essere raccontato, se non nella forma di un’allucinazione profetica avuta da Dante nel culmine di una non meglio precisata malattia, nella Vita nuova accade un evento catastrofico, che per sempre segnerà la vita dell’uomo e del poeta: la morte di Beatrice. L’autore, in questa opera in prosa e in versi che racconta tutta la sua vicenda di amore e di crescita attraverso l’amore, decide si tacere su un evento tanto dirompente da essere inenarrabile.
Ce lo fa invece soltanto percepire attraverso segni sparsi. Uno dei più toccanti è quello con cui si apre il capitolo che segna il nuovo tempo, successivo alla perdita: “Quomodo sedet sola civitas plena populo facta est quasi vidua domina gentium” (‘Come giace desolata la città un tempo piena di popolo’, Lam., 1, 1). Come Gerusalemme nei versi biblici di Geremia, Firenze è ora desolata, segnata nella da una perdita che è rappresentata come un fatto di risonanza pubblica, che interessa tutti, totale: la morte di Beatrice. La radianza dell’amore non dovrebbe concentrarsi sull’oggetto amato, che è sottoposto alla mutevolezza delle cose del mondo. Essa dovrebbe invece ricadere sul soggetto per migliorarlo, essere per lui un segno della grazia divina, dargli una prospettiva oltre il sé terreno, fornirgli una prova dell’eternità della sua anima.
Questo è quello che, tra molti sforzi, dolori, sofferenze, mancanze, il giovanissimo Dante sta apprendendo. La vita ‘nuova’ è infatti una vita ‘rinnovata’ alla luce della grazia di Beatrice. Nel raccontare il suo percorso, l’autore si adopera nel fornire tutte le possibili coordinate ‘oggettive’ che suggellano la cornice divina del suo incontro con Beatrice. Il numero nove è la prima parola con cui Dante comincia il vero e proprio racconto della vicenda: nove volte era girato il sole dopo la sua nascita quando incontrò “la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice”. Aveva dunque nove anni lui, e poco più giovane era lei, la quale
‘era già in questa vita stata tanto, che nel suo tempo lo Cielo Stellato era mosso verso la parte d’oriente delle dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, e io la vidi quasi dalla fine del mio nono.’ [Ed. Gorni, per tutte le citazioni a testo di questo articolo]
E non finisce qui, con il numero che Dante tiene a menzionare quante più volte possibile. Il secondo incontro tra i due avverrà esattamente a distanza di nove anni dal primo.
E accadrà qualcosa di più: Beatrice manifesterà la beatitudine – quell’effetto che è promesso e contenuto già nel suo nome – attraverso il suo saluto.
E ciò, non casualmente, avverrà proprio all’ora nona di quel giorno:
‘L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quel giorno. E però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire alli miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio dalle genti, e ricorso al solingo luogo d’una mia camera, puosimi a pensare di questa cortesissima.’
Dopo la morte dell’amata, il percorso mitografico tracciato da Dante culmina in un paragrafo particolarmente complesso, in cui l’autore cerca di dimostrare, matematicamente e in maniera scientificamente e teologicamente fondata, che davvero Beatrice è amica del nove.
‘Io dico che, secondo l’usanza d’Arabia, l’anima sua nobilissima si partio nella prima ora del nono giorno del mese. E secondo l’usanza di Siria, ella si partio nel nono mese dell’anno, però che ‘l primo mese è ivi Thisirim primo, lo quale a noi è Octobre. E secondo l’usanza nostra, ella si partio in quello anno della nostra inditione, cioè degli anni Domini, in cui lo perfecto numero nove volte era compiuto in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella fue delli cristiani del terzodecimo centinaio. Perché questo numero fosse in tanto amico di lei, questa potrebbe essere una ragione. Con ciò sia cosa che, secondo Tholomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono; e secondo comune oppinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giù secondo la loro abitudine insieme; questo numero fue amico di lei per dare ad intendere che nella sua generatione tutti e nove li mobili cieli perfectissimamente s’aveano insieme. Questa è una ragione di ciò. Ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima: per similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero del tre è la radice del nove, però che, sanza numero altro alcuno, per sé medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è factore per sé medesimo del nove, e lo factore per sé medesimo delli miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Sancto, li quali sono tre e uno, questa donna fue acompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade.’
L’anima nobilissima di Beatrice, dunque, salì al cielo nella prima ora del nono giorno del mese, secondo il calendario arabo; in quello siriano, questo evento si verificò nel nono mese dell’anno.
E secondo il calendario in uso ai tempi di Dante, con una complessa locuzione torna ancora una volta il numero nove.
Alla luce di quanto è stato raccontato all’inizio del ‘libello’, il nome affettuoso con cui Dante chiamava la Vita nuova, e alla luce di quanto viene raccontato ora, il lettore dell’opera si chiederà perché questo numero fosse così ‘amico’ di Beatrice. Dante lo spiega, passo per passo, nel punto che di seguito parafrasiamo:
‘Perché questo numero fosse tanto affine a Beatrice, una spiegazione potrebbe essere la seguente: visto che secondo Tolomeo e la verità della dottrina cristiana i cieli mobili sono nove e dato che secondo la comune opinione astrologica questi cieli esercitano sulla terra la loro influenza sulla base della loro reciproca relazione e collocazione, questo numero fu ‘amico’ di Beatrice, cioè a lei strettamente associato, per far capire che al momento del suo concepimento tutti i nove cieli mobili si trovavano reciprocamente nella loro migliore disposizione possibile.’
Non basta aver spiegato la motivazione astrologica, ma è necessario, ora, spiegare perché questo numero renda Beatrice non solo ‘amica dei cieli’ ma anche di Dio.
‘Questa è una motivazione del discorso, ma, pensando ancora più dettagliatamente e secondo l’infallibile verità della teologia, lei stessa fu questo numero, per similitudine. E lo spiego in questo modo: il tre è la radice del nove, per il fatto che (il tre) moltiplicato per sé stesso, senza altro numero, dà nove, così come vediamo chiaramente che tre per tre fa nove. Dunque se il tre è per sé stesso fattore del nove, il fattore dei miracoli per sé stesso è tre, cioè Padre, Figlio e Spirito Santo, i quali sono tre e uno contemporaneamente, questa donna fu accompagnata dal numero nove per fare intendere che lei era un nove, cioè un miracolo, la cui radice, cioè la causa del miracolo, è solamente la miracolosa Trinità.’
Per spiegare Beatrice occorre dunque un discorso numerico, perché nel Medioevo, così come nel testo biblico, i numeri costituiscono l’ontologia del mondo e del modo in cui l’ordine divino si mostra agli uomini. La matematica è qui mobilitata da Dante come un segno, come il contrassegno simbolico di un rapporto di perfezione. Si tratta di quel rapporto che risulta quando il tre, la Trinità, si esprime in sé stessa e si rende ‘quadrato completo’, cioè manifestazione perfetta, della sua radice, ossia quando essa diviene ‘prodotto’ (nove) del tre (Trinità), che è suo ‘fattore’ (parola che indica, non a caso, anche il Creatore).
E se sono i miracoli il modo in cui Dio (quell’Uno che è parte del dogma della Trinità) si manifesta sulla terra, finalmente comprendiamo che con questo complesso racconto Dante voglia dirci, semplicemente e con la grandezza che gli è propria, che Beatrice stessa è un miracolo.