Con i miei germani Michele e Teresa ho vissuto il vantaggio di vivere in un fervido incubatore familiare.
Mia madre era sempre alla ricerca di risposte per soddisfare la sua insaziabile sete di curiosità. Mio padre, ancora fanciulli, ci stimolava all’apprendimento non raccontandoci la favola del gatto con gli stivali (l’elogio della scaltrezza umana), ma quella più significativa del pifferaio magico (la capacità di governo della città). A noi ragazzi narrava l’episodio dirompente della prima rappresentazione al Teatro Valle di Roma di “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello. Opera contestata perché rivoluzionaria e controcorrente.
Le nostre curiosità venivano soddisfatte nel sacrario familiare rappresentato da una ricca biblioteca, dove in evidenza era presente il numero 33 del 1927 della rivista Le Vie d’Italia contenente il saggio di Carmelo Colamonico “Matera, una città semisotterranea”.
Entrammo così nel mistero della nostra città, successivamente declassata a “vergogna nazionale” e cancellata dalla memoria attiva della comunità.
Sentii parlare bene della Basilicata e di Matera solo in una serata romana dell’ottobre del 1957 nel corso di una conferenza sulla Basilicata tenuta dal geografo Giuseppe Isnardi.
Fu questa l’esca che favorì la mia cattura da parte di Umberto Zanotti Bianco, presidente dell’ANIMI, nella cui sede prestigiosa di Palazzo Taverna irrobustii la conoscenza delle tematiche meridionali, a scapito delle materie del mio corso di laurea. Furono quotidiane letture illuminanti e vulcaniche serate di eruzioni di idee e di progetti per il Mezzogiorno d’Italia.
Il termine della mia lunga “libera uscita” dagli studi universitari fu segnato da una frase lapidaria di Umberto Zanotti Bianco: “ora sei pronto per ritornare nella tua terra. Dovrai approfondirne la conoscenza e, se riterrai la tua città matrigna hai il diritto di abbandonarla; ma se la riterrai materna hai il dovere di fermarti per donarle il tuo impegno” perché, come avevamo lungamente discusso, quando una cultura diviene fabbrica del civile può tradursi in azione politica.
Ritornai, quindi, a casa recuperando la confidenza con gli studi universitari interrotti, ma favorendo, con una cordata di amici facente parte della filodrammatica locale guidata dai miei germani Michele e Teresa, la gestione sul campo del primo Congresso storico della Basilicata, presieduto da Umberto Zanotti Bianco e celebrato in Matera e Potenza nei giorni 15-18 ottobre 1958.
Non fu, quindi, per una casualità o per una improvvisazione che, su impulso di mio fratello Michele, il 7 aprile 1959, venne fondato il Circolo La Scaletta, quale necessità di approfondimento della nostra condizione, fatta di continue riflessioni e di una mai spenta tensione civile, anche quando il nostro cammino controcorrente era interrotto da sottovalutazioni, derisioni e diffusa indifferenza.
In quel tempo eravamo bollati come “cavernicoli doc” e la città rappresentava la cattiva coscienza di una comunità troglodita. Tra scialli neri ed incomposte miserie correva la raffigurazione di Matera, dove non c’era spazio per una redenzione futura né un qualche ancoraggio positivo nella storia del luogo.
Ci interrogammo e ci chiedemmo se eravamo figli senza speranza della miseria, ovvero figli di una terra intristita dalla contingenza del tempo ma con forti valori e con straordinaria specificità culturale.
Il Circolo, cioè la comunità amicale circuitante ne La Scaletta, nacque anche per dare una risposta a questo quesito, cioè, come provocatoriamente dichiarammo, se eravamo epigoni della miseria o della storia.
E la risposta partì dalle origini del mondo, quando Matera era inabissata nelle profondità marine e non vi era stata ancora la sua doppia vittoria sul mare. Conoscemmo i segni e le presenze della preistoria, della protostoria e della storia di cui è custode il nostro territorio, nella sua perenne trama di rapporti con le fecondazioni dell’uomo.
Comprendemmo allora che il vero valore di Matera è offerto da questa continuità, dalla costanza della presenza dell’uomo, dal permanere con alterne fortune della vicenda umana in un caratterizzato ambiente geomorfologico “biblico nella sua potenza, omerico nei suoi colori”, in una continuità di perenne frequentazione.
Di qui partimmo per recuperare la confidenza degli abitanti con il proprio territorio, tradottasi in azione comunitaria per educare al valore della propria storia gli abitanti della città, gravata dalla maledizione di rappresentare la miseria pezzente del Mezzogiorno d’Italia.
È stata una lunga marcia di apostolato civile perché, come è noto, la miseria umilia talmente gli uomini da farli arrossire persino delle proprie virtù.
Su questo binario è corsa la costanza di una tensione pedagogica, forti della convinzione che “la tradizione non è la venerazione delle ceneri, ma la salvaguardia del fuoco”.
Con la caparbietà di tale impegno, quale minoranza dinamica, diffondemmo anticorpi culturali in grado di instillare nella diffusa disaffezione della gente il vaccino della conoscenza capace di tradursi nel valore della appartenenza.
Divenendo apostoli di una fervida ricomposizione comunitaria, proclamammo che gli antichi rioni dei Sassi non rappresentavano l’infamia nazionale ma la sua insostituibile identità, non zavorra storica ma lievito di nuovi messaggi, di nuove visioni, di nuove azioni. Insegnammo il carattere eterno della scelta abitativa e la visione profetica di Matera dove il presente non andava visto come continuità del passato, ma come anticipazione del futuro. Rivelammo che l’armatura culturale del territorio andava considerata come matrice di identità e come strumento di sviluppo. Documentammo la eterna vicenda umana di Matera e il suo prodigioso vitalismo storico. Invitammo la comunità a ritrovare la forza del proprio tempo per continuare a credere nella storia.
Questa fu la nostra ricetta culturale per annientare la ripulsa dei materani verso il loro “genius loci”.
Posso dire che a Matera è stato raggiunto l’affiatamento della gente con la propria “patria”, perché gli abitanti, penetrando in libertà nella millenaria tessitura storica del luogo, hanno compreso che questa terra esprimeva inusuali energie vitali, in grado di superare passaggi drammatici della sua esistenza e capaci di costruire, sempre, nuova storia.
Forza propositiva tramandata di generazione in generazione e creatrice dell’eterno vitalismo storico di una delle città più antiche del mondo.
Non un cittadino “comparsa”, bensì un cittadino “protagonista”: questa è stata la rivoluzione culturale di Matera, che ha cancellato dal suo lessico il termine “Oicofobia”, cioè la patologia di un mondo che odia se stesso.
In sostanza la fedeltà alla propria origine ha impedito ai materani di dare le dimissioni dalla propria città.
Su questa “brace culturale” è stata fusa la innovativa progettualità del Circolo, divenuto ispiratore di una necessaria “mutazione sociale” e ideatore di messaggi, di eventi, di azioni e di realizzazioni nei settori portanti della creatività culturale e dell’economia della cultura.
Una lunga marcia per riconquistare la rimossa dignità e per dare ai cittadini il senso di missione, individuando nella identità storica di Matera il ruolo della città per il suo sviluppo.
Questa straordinaria rendicontazione sociale del patrimonio culturale ha espresso un risultato sorprendente; a Matera la questione culturale è divenuta una grande questione politica, cioè l’adesione sentita della comunità alla responsabilità di costruire il futuro della propria “polis”, avendone registrato le qualità valoriali della unicità e della universalità.
Per questo a Matera la storia del luogo non è una memoria da contemplare, bensì un valore territoriale da esaltare perché in grado di costruire un inedito e moderno sistema, trasformando la identità in sviluppo.