Le pere erano uno dei frutti più amati dal Re Luigi XIV che ne fece coltivare numerose varietà dal suo agronomo e giardiniere Jean-Baptiste de La Quintinie (Chabanais, 1 marzo 1624 – Versailles, 11 novembre 1688) nel Potager du roi a Versailles. La Quintinie poteva vantare di averne selezionate, nei regali frutteti, ben 500 varietà che maturavano in diversi periodi dell’anno, di modo tale che il Re ne potesse gustare una specie differente ogni giorno (la tavola del sovrano inoltre, grazie alle incredibili conoscenze del suo agronomo poteva offrire anche altri frutti molto fragili da coltivare in certi climi, come fichi, fragole, e meloni, oltre ai preziosi asparagi). Alla pratica di tanti anni, seguì la teoria con un trattato “Instruction pour les jardins fruitiers et potagers”, che istruiva alla coltivazione di queste varietà in tutto il Regno. E di supporto nacquero poi, vari ricettari che suggerivano come cucinare le diverse varietà di pere e addirittura manuali appositi per apprendere come trinciarle nel migliore dei modi, ricavando fette perfette o altre forme bizzarre.
Nel secolo successivo però le pere persero parte della loro regale considerazione divenendo dolci da passeggio, vendute dal peracottaro ricoperte da caramello e infilzate su un bastoncino, mentre oggi il frutto dall’incantevole sapore zuccherino, è incastonato in vari dessert d’autore che accompagnano il periodo di transizione fra la stagione invernale e la primavera.
Origini
Luogo di nascita della pera non è l’Europa, dove poi si diffuse largamente, ma l’antica Cina occidentale, nei cui sconfinati territori la specie pyurs pyrifolia (antenata dell’odierna pera Nashi o pera asiatica) era presente da più di 4000 anni, e nel Medio Oriente dove, nelle zone dell’Asia minore e del Caucaso, ebbe origine il pyrus communis, la specie di pero oggi più diffusa.
Il pero deve il proprio nome al latino “pyrus”, che gli fu assegnato da Carlo Linneo il famoso botanico svedese, primo a descrivere la specie classificandola secondo il proprio celebre modello di nomenclatura binomiale della natura (basato cioè, sull’affiancamento di genere e specie).
Attestazioni scritte della parola “pero” si ritrovano nell’Odissea: il poeta Omero ricorda le piantagioni di re Alcinoo e Laerte, mentre la mitologia greca attribuisce alla pera un significato di frutto gustoso e sano, scelto da eroi e divinità. La pera è presente anche in alcuni scritti di Ippocrate e di Teofrasto, il quale già nel 350 a.C. fa riferimento sia a pere selvatiche sia a varietà coltivate dall’uomo. Dall’antica Grecia l’albero giunge poi a Roma. Diversi autori romani ne fanno menzione nelle loro opere raccontando della predilezione per la pera da parte di alcuni personaggi di spicco del mondo politico dell’epoca, come ad esempio Nerone e Gneo Pompeo. Tra le citazioni più importanti del dolce frutto, ci sono quelle del Mago Virgilio e Marco Porcio Catone (nel suo trattato “De agricoltura” descrive ben sei procedimenti per la coltivazione del pero), mentre Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia del primo secolo d.C. enumera oltre 40 differenti varietà di pere, segno di come gli antichi romani conoscessero già le tecniche di coltivazione di questo frutto , con varietà che venivano scoperte e portate a Roma dalle varie province dell’impero.
Nel quarto secolo d.C. poi, un curioso riferimento alla pera si ritrova nelle Confessioni di Sant’Agostino: il grande teologo nella sua opera autobiografica confessa di essere stato protagonista in età adolescenziale, di un furto di pere in compagnia di alcuni amici, paragonando il proprio peccato a quello originale compiuto da Adamo, con la differenza che, nel ruolo del frutto proibito, figurava una pera anziché una mela.
La Pera nell’arte
La pera nei secoli, godè di una discreta iconografia nelle scene sacre così come in quelle profane, sempre associata ad un valore simbolico.
Una delle aree a più forte vocazione di coltivazione delle pere è la Romagna, come testimonia il fatto che al museo di Arte sacra di Cesena sia custodita la “Madonna della pera” un quadro la cui datazione risale all’incirca al 1420, e che lo rende il dipinto più antico conservato nell’interno della Pinacoteca di Cesena. Inizialmente il quadro fu attribuito a Bittino da Faenza, ma dopo varie studie e ricerche è ormai considerata opera di un maestro veneto.
Altra opera di assoluto valore è “La Vergine della Pera” un dipinto a olio su tavola di Albrecht Dürer, datato 1526 e conservato presso la Galleria degli Uffizi a Firenze.
Il dipinto è l’ultimo soggetto di Madonna dell’artista (pittore, incisore, matematico e trattatista tedesco) e uno degli ultimi lavori in assoluto.
Venne realizzata a Norimberga, quando già da un anno era stata introdotta la Riforma protestante, che aveva decretato un deciso ridimensionamento al culto delle immagini della Vergine e dei santi. L’artista si ispirò probabilmente a un disegno preparatorio di una Santa Barbara, dipinta al ritorno dal viaggio nei Paesi Bassi per un grande altare poi mai realizzato.
Giovanni Bellini: La madonna di Alzano (1485 -1487)
Il dipinto, capolavoro della maturità di Giovanni Bellini (1430 ca./ 1516), è caratterizzato dal rapporto tra il gruppo monumentale della Madonna col Bambino e il paesaggio punteggiato di borghi e persone che si distende alle loro spalle, e per il quale si è ipotizzato l’intervento di un altro pittore.
Sul parapetto è collocata una pera, frutto che per la sua dolcezza viene associato all’amore che unisce Madre e Figlio, ma che richiama anche il pomo colto da Eva nel Paradiso Terrestre e quindi il ruolo di Maria e Gesù nel redimere il peccato originale. Ricordato per la prima volta nelle “Meraviglie dell’arte di Carlo Ridolfi” (1648) quando si trovava ad Alzano Lombardo, dove è documentato già nel Cinquecento, il dipinto fu commissionato da Alessio Agliardi, architetto e ingegnere bergamasco al servizio della Repubblica di Venezia, e lasciato a sua figlia Lucrezia, da vedova divenuta badessa delle Carmelitane ad Albino, per passare poi, con una sosta secolare su un altare a Alzano, da cui il suo nome, per le mani di alcuni religiosi e collezionisti fino a Morelli. L’opera era conosciuta e amata dai fedeli, al punto che il grande Giovan Battista Moroni ne fece a metà ‘500 una bella copia, cambiando lo sfondo, e come forse di sua mano è anche un’altra replica.
La Madonna di Alzano del Bellini costituisce un modello di riferimento imprescindibile per le future opere di diversi artisti, e in modo particolare per Cima da Conegliano e Albrecht Dürer. Sebbene innumerevoli Madonne con Bambino dell’artista veneto partano da una più o meno esplicita derivazione dall’arte bizantina, le sue immagini si allontanano dalla rigidità delle icone, puntando invece sul coinvolgimento emotivo dell’osservatore. Le opere sono pervase da una religiosità profonda dall’accento intimo che mira ad instaurare un colloquio privato e umano con il divino e la devozione privata. Bellini riesce a modulare ogni volta questo tema variando posizioni, gesti, sguardi e introducendo vere e proprie trasformazioni iconografiche volte a suscitare un senso di familiarità eliminando quella separazione tra mondo terreno e divino.
Un espediente particolare, quello del drappo che si frappone tra il paesaggio sullo sfondo e le figure in primo piano non è propriamente un’invenzione belliniana, poiché tendaggi, paramenti e baldacchini derivavano dall’iconografia delle cerimonie imperiali ed erano già stati utilizzati da Duccio di Buoninsegna. Giovanni però ne modernizza l’uso rendendo la tenda un elemento compositivo e scenico più volte ripreso e studiato nelle sue opere in particolare per quelle destinate alla devozione privata.
L’attenzione e il gusto dell’artista per la ricerca naturalistica lo si nota qui grazie all’ombra della Vergine che si proietta sul drappo retrostante dichiarandone così la sua natura umana e terrena. La geometria della composizione con il pesante tendaggio che taglia verticalmente il centro della composizione e il parapetto orizzontale, anche questo elemento ricorrente nelle Madonne di Bellini, va come a disegnare una croce evocando così il destino del Bambino. Un destino di redenzione dal peccato originale simboleggiato dalla pera in primo piano. È proprio a partire da quest’opera che il paesaggio comincia ad assumere un maggior peso nella composizione artistica; ed è probabilmente l’incontro con il pittore Antonello da Messina (Messina, 1425 /1430 – Messina, febbraio 1479) ad aver influito sulla scelta di Bellini di dare a questo elemento spazio crescente nelle scene religiose non solo come puro sfondo prospettico ma anche come ambientazione al fine di meglio contestualizzare gli eventi religiosi. In questo caso infatti, il paesaggio non è più semplicemente un elemento naturale di contorno ma partecipa simbolicamente al tenero colloquio tra Madre e Figlio; viene riproposta la principale dualità del tempo con la rappresentazione del potere temporale, il castello turrito, e del potere secolare simboleggiato dalla svettante torre campanaria nella città in lontananza. Inoltre vi è una forte attenzione miniaturistica ai particolari e una cromia fredda con effetti luminosi che richiama i panorami dei famosi quadri di genere fiamminghi e l’opera di Van Eyck (Giovanni da Bruggia, Maaseik, 1390 circa – Bruges, 9 luglio 1441) . Qui Bellini, come in tutte le sue altre opere della maturità, ricorre alla prospettiva cromatica, cioè una tecnica di stesura che prevede l’accostamento di diversi toni di colore per creare un’illusione visiva di profondità su una superficie dipinta bidimensionale. I toni più freddi sono assegnati agli elementi più lontani, mentre i toni più caldi fanno riferimento ai passaggi più vicini all’osservatore o in primo piano.
Il supporto è costituito da due pannelli in legno di pioppo.
Al cinema
La pera Nashi è il frutto asiatico dalla forma arrotondata capace di bilanciare con il suo gusto morbido i sapori degli altri ingredienti, apportando freschezza e una fragrante consistenza. Oltre a sprigionare nella preparazione di dolci dei più famosi chef stellati, il proprio sapore peculiare, diventa l’elemento grazie al quale viene raggiunto un complesso equilibrio di gusto e forme. Gustarla seduti sulla finestra di una camera d’albergo con vista sul quartiere Shinjuku (uno dei 23 quartieri speciali di Tokyo in Giappone) come nel film diretto da Sofia Coppola nel 2003 “Lost in translation”, ha un suo valore estremamente evocativo.
Ne “Le regole del caos” del 2014, film diretto da Alan Rickman, (che si ritaglia anche il ruolo di Luigi XIV) con Kate Winslet e Alan Rickman, vi è invece una scena emozionante in cui Jean Baptiste La Quintinie (il giardiniere e agronomo di Re Luigi XIV) nel Potager du roi a Versailles, accarezza teneramente con lo sguardo ma senza mai coglierlo, il frutto di un suo albero di Pero.
Curiosità
La pera, è un frutto decisamente deperibile, ed in epoche più antiche non potendo usufruire delle odierne moderne tecnologie di conservazione era riservato solo agli appetiti capricciosi dei nobili e dei ricchi, divenendo così un vero e proprio status symbol.
Le pere però erano considerate anche uno dei frutti cosidetti freddi, e le scuole filosofiche medievali ritenevano la frutta “fredda” in genere poco digeribile. Aveva di contro, altre utilità terapeutiche, al punto da farne una medicina più che un alimento: “Non usiamole mai come alimento, ma solo come medicamento.” (Arnaldo da Villanova, seconda metà del XIII secolo.)
In base al principio del temperamento, quel freddo che per natura apparteneva alla frutta poteva essere riscaldato. Un modo efficace era quello di accompagnare i frutti con il vino, dalle proprietà riscaldanti.
“Si suol domandare come mai le pere, se non sono accompagnate dal vino, sono nocive. Le pere sono pesanti e di natura fredda. Perciò bisogna prenderle col vino, affinché il calore di questo temperi la loro freddezza.” Alessandro Neckham, inizio XIII secolo.
“Après la poire, le vin.
Sur poyre, vin boire.
Après la boire, prestre o boire.”
Dopo la pera il vino. Sulla pera, bere vino. Dopo la pera, il prete (per l’estrema unzione)o il bere. Detti diffusi in Francia fin dal XV secolo.
Altro metodo infallibile per riscaldare la natura fredda della pera era la cottura, ovviamente. questa trasformazione era quasi alchemica, visto che cambiava il frutto da veleno a medicamento: “Se velen la pera è detta, sia la pera maledetta, ma quando è cotta ad antidoto è ridotta.” Scuola medica salernitana XI secolo.
D’altronde: “Poire bouillie, sauve la vie”: Pera bollita, salva la vita.
Il terzo modo per “combattere” la freddezza del frutto è quello di accostarlo a un cibo ritenuto caldo, come il formaggio. Ed è probabilmente così che nasce il detto su formaggio, pere e contadini.
“Le frutte dal formaggio accompagnate
Son men nocive, anzi salubri, e buone
Al gusto, e a lo stomaco più grate.
Massime i fichi, e le pere e ‘l melone
e le pesche…”
Ercole Bentivoglio, metà del XVI secolo.
Ma qui è necessario fare anche un’altra considerazione, ovvero la necessità di nobilitare il formaggio, cibo semplice e di connotazione contadina, con dei frutti più delicati e deperibili, prerogativa delle classi più alte.
Un’ esperienza di gusto…
Infine un’esperienza assolutamente da vivere è quella di gustare uno dei più famosi dessert alla pera, al “Jules Verne” il ristorante parigino con un’incantevole vista sulla Tour Eiffel, guidato da Frédéric Anton chef francese di fama mondiale, maestro di cucina, con tre stelle Michelin e il titolo di Meilleur Ouvrier de France.
Il dessert che già nel nome rivela un delizioso intreccio di aromi delicatissimi e decise consistenze: “Pera pochée al miele e Zéphyr à la Reine de Prés”, è una nuvola che viaggia nella libertà dei venti. Un frutto morbido e raffinato accostato a una mousse spumosa all’olmaria, (un’erba spontanea originaria dell’Europa, già considerata sacra e utilizzata per le sue proprietà medicinali nel Medioevo ) conosciuta anche come Fior d’oro, Reginella o Regina dei prati, e caratterizzata da fiori a grappolo, spirea, dall’azione antinfiammatoria e dai quali si ottiene tra l‘altro l’aspirina.