Come la quasi totalità delle parole utili alle narrazioni culturali del contemporaneo – compresa la stessa parola “narrazione” – la parola “radici” è diventata straordinariamente insidiosa. Resilienza, natura, ambiente, territorio, relazione, dialogo, generazione, bellezza, comunità, collettivo, partecipazione… sono alcune ricorrenze di questo vocabolario: per uscire fuori dal novero delle formule pavloviane adoperate al solo scopo di attivare strumentalmente l’attenzione di pubblici già mappati – come target di operazioni di mercato – il loro utilizzo necessita della preparazione di un contesto argomentale quanto più specifico e preciso possibile, che ne chiarisca modalità e obiettivi e le tiri fuori dal pantano del generico, del puramente evocativo. Solo così si può sperare di spostare davvero concetti, e non solo di provocare effetti.
Occorre notare in quali contesti è normalmente evocato il concetto di “radici”, inteso ovviamente nel senso retorico della catacrèṡi, come determinazione di origini culturali e/o territoriali. Quasi sempre diventa rilevante, per contrappasso, per chi si percepisce come “sradicato”: difficilmente sentiremo parlare di radici da chi è nato e vissuto senza alcuna difficoltà in un luogo, o da chi vi si sia allontanato nel pieno dominio delle ragioni di una scelta. Insomma, da chi a riguardo della propria origine non abbia la necessità di affermare o rivendicare qualcosa. Grottesca appare anche solo l’immagine di un milanese o di un londinese che parlino di radici, essendo rappresentanti, anche proprio malgrado, di egemonie culturali ed economiche.
Parla di radici chi evidentemente si sente tremare la terra sotto i piedi, o ha la necessità politica di rappresentarsi in tale condizione: per un meccanismo del negativo sartriano, chi afferma sta contestualmente smentendo, e chi ribadisce, allora, non ha poi tutte le certezze cui vorrebbe appellarsi. Chi fa ricorso alla narrazione delle radici, quindi, spesso sta parlando di sradicamenti. Chi parla di ciò che mai lo condurrà a “tradire” la propria origine, sta parlando della fatica di restare ortodossi a un’idea di sé che è messa in crisi. Nutrita e spesso affascinante è la letteratura dello sradicamento lucano, per esempio: da Orazio Flacco a Leonardo Sinisgalli, da Carlo Levi a Rocco Scotellaro, passando per Giustino Fortunato, tutti non possono evitare di parlare del vincolo con le origini a partire da una condizione di necessaria privazione.
In uno striscione diventato un popolare meme qualche anno fa, si leggeva: «L’Italia è nata romana e cristiana. Non morirà gay e mussulmana» (sic.). Chi scrive in tono fortemente epigrafico un’affermazione di questo tipo? Evidentemente, chi sente forte la necessità di appoggiarsi a una narrazione di egemonia declinante, e di individuare contestualmente le cause di questo declino nella concessione al meticciato, nell’allontanamento dalla mitica origine. Per tale ragione si individua un punto fisso nella storia che risponda alle caratteristiche che sembrerebbero comprovare la natura indubitabile di quell’origine a cui tenere fede. Non importa se il concetto di “Italia” sia stato lambito e trasceso dalla romanità esattamente come in mille altri frangenti della storia; quanto la stessa Roma si definisse debitrice alla cultura greca, e quanto l’Impero romano d’oriente si definisse romano pur prescindendo da Roma; oppure, quanto il cristianesimo diventi elemento aggregante proprio nel momento del declino delle ragioni egemoniche dell’Impero d’occidente; o quanto il sistema romano basasse il successo del proprio modello politico proprio sull’assimilazione dell’altro con un concetto di cittadinanza straordinariamente lasco e pragmatico; e quanto il concetto di omosessualità fosse del tutto irrilevante in un assetto sociale in cui – almeno letterariamente – Cesare era definito «il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti», Adriano aveva deificato il proprio amante Antinoo, o Nerone non si era fatto problemi a castrare e sposare Sporo in sostituzione della defunta moglie Poppea. Si comprende immediatamente come quel senso di verità legato alla radice italiana “romana, cristiana, eterosessuale” non sia che un racconto, una messa in scena, una formulazione meno che letteraria volta a mistificare piuttosto che a rivelare.
Si comprende inoltre quale insidia possa nascondersi dietro una narrazione di comodo, e come l’istanza di radicamento possa essere, al di là del sentire individuale, uno strumento politico per la costruzione di un’omogeneità virtuale, spesso strumentale se non pretestuosa. Con ciò, però, non si può negare a piè pari l’esistenza di una forza di “reciproca appartenenza” degli esseri umani a un’origine – che non è necessariamente rappresentata da un luogo. Purché, però, si sia disposti a smitizzarla, a toglierle la patina di romantica ineluttabilità o di mistificante determinismo, a rinunciare a un’idea di coercizione e ortodossia tipica dei clan. Nessun essere umano appartiene – né deve appartenere – a una terra o a un gruppo culturale omogeneo e dai contorni definiti, ma appartiene a un flusso, a una storia, a una sommatoria di accidenti e occasioni, di cause e concause, più o meno collettive e/o condivise, che determinano la percezione di sé e il modo in cui si assume una posizione dialettica nel confronto con le alterità.
Lo scotto da pagare, in caso contrario, è quello di trovarsi incastrati a performare continuamente una proiezione generica, folklorica, accomodante di “identità”, ossia dell’essere uguali a “un” se stessi che non preveda di mettere a bilancio spinte interne, particolari, divergenti, di farne coscienza, di farne progetti di sé potenziali e futuri. Ecco quindi sorgere certe improbabili rievocazioni in costumi di poliestere che spesso attualizzano storie talvolta nemmeno mai esistite, che banalizzano fino all’implausibilità il senso di comunanza culturale, che trasfigurano il rapporto di un’umanità con i territori al livello di un folklore senza nessuna reale profondità antropologica né proiezione nel futuro delle comunità che lo esprimono.
Perfino l’equivoco, tuttavia, è uno degli agenti che plasmano questi flussi di auto-definizione culturale. Se è vero che non si può più pensare di funzionalizzare e secolarizzare il rapporto simbolico e rituale dell’uomo con il territorio fino alla scomparsa di ogni pregnanza sacrale, è anche vero che la banalizzazione del concetto di appartenenza e di radicamento è il modo migliore per sterilizzare quel rapporto in un conformismo posticcio. Interessante notare, a proposito, come i criteri culturali per il riconoscimento di un Patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco abbiano fortemente a che fare con il rapporto tra ingegno e territorio nell’elaborazione di forme culturali in grado di rappresentare peculiari modalità dell’abitare. Nulla che abbia a che fare con la recrudescenza delle coppole sulle teste dei giovani camerieri siciliani o con i costumi da centurione per una photo opportunity turistica di fronte al Colosseo. Nulla che abbia a che fare con la consolazione di identitarismi di comodo, da performare a beneficio degli obiettivi dei cellulari per soddisfare le aspettative di un turismo instagrammabile ormai squalificato.
La parola “tradizione”, se letta con attenzione, rimanda a una pratica, e non a un oggetto stabile, a un’entità definita. È la sostantivazione del verbo “tradurre”, che vuol dire sia “condurre attraverso”, da un luogo a un’altro, sia volgere un concetto da un sistema linguistico a un’altro conservando un senso.
Con “Porta Coeli Foundation” abbiamo provato a sperimentare questi principi in alcuni casi di progettazione culturale calata nelle specificità territoriali: una progettazione “sartoriale”, luogo-specifica, che prima ancora di proporre e imporre, analizza e interroga, provoca e diagnostica, legge e rilegge. A partire dal 2022, il Comune di Armento (Potenza), inizialmente associato al Comune di San Chirico Raparo (che detiene la meravigliosa abbazia di Sant’Angelo al Monte Raparo) ha sviluppato con Porta Coeli Foundation un progetto per la riemersione della matrice culturale italo-greca del paese, sommersa sotto spinte che storicamente hanno portato la comunità alla propria assimilazione con diversi modelli egemonici e “globalizzati”.
Il paese si connota intorno a una serie di mancanze, di rimossi. Uno, è quello della Corona di Kritonios, capolavoro assoluto dell’oreficeria magnogreca, rinvenuta due secoli fa a Serra Lustrante, e da subito alienata, per finire oggi nelle Staatliche Antikensammlungen di Monaco di Baviera. Quanto al secondo, invece: il paese ospita le spoglie di due santi siculo-bizantini, Luca da Demenna e Vitale da Castronovo, che a cavallo dell’anno Mille, pressati dalle spinte saracene, hanno risalito la penisola alla ricerca del contesto per l’esplicitazione della propria visione filosofica della vita e della fede. L’agiografia ci racconta di un Luca che, approdato ad Armento, chiede dispensa a Dio per esercitare la forza contro gli invasori, uscendo così con il suo cavallo da una mandorla di fuoco per sbaragliare i nemici.
Al di là del contenuto letterario e di fede, la componente simbolica di questa storia ci racconta di una forma di radicamento non per origine ma per vocazione: l’inconsueto abate/vescovo a cavallo è oggi lo stemma del paese.
Curiosamente, però, i due santi sono stati soppiantati nel culto da San Filippo Neri e dalla Madonna della Stella, più innocui e meno controversi, più utili a svolgere un ruolo di patroni che non preveda l’autodeterminazione e la difesa di un’alterità. L’ultima commissione specifica di qualità sull’iconografia dei santi Luca e Vitale risale al XVI secolo, con il polittico di Armento attribuito a Giovanni Luce da Eboli. Dalla Controriforma in poi, specie l’iconografia di San Luca diventa sempre più sterile e generica, fino a sconfinare in sculture di gusto barocco senza più alcun attributo legato alla grande vicenda della difesa di Armento, e perfino al monachesimo bizantino.
Riportare elementi di storia collettiva al centro della percettibilità pubblica e della rappresentazione di cittadinanza è diventato quindi lo scopo di una serie di azioni che si tengono accuratamente distanti dai modi della rievocazione e della pantomima. Nel 2022 l’ex monaco iconografo siciliano Igor Scalisi Palminteri, specializzato in arte urbana e iconografie sacre contemporanee calate nella contingenza del presente, dipinge due “pale” dedicate ai santi su un prospetto della chiesa di San Luca, con nuova consapevolezza sulle loro iconografie. Contestualmente, il paese apre la propria galleria civica, “Ori e orazioni”, con una collezione permanente di icone bizantine contemporanee provenienti dal Monastero della Trasfigurazione di Lepanto, con cui stringe un patto di collaborazione e reciproco sostegno, partecipando in Grecia a conferenze e seminari. La galleria, sotto la mia direzione artistica, si fa promotrice di una serie di attività diffuse nell’abitato, tra cui una mostra collettiva d’arte contemporanea sulla permanenza dell’oro nell’opera degli artisti lucani (Dario Carmentano, Salvatore Comminiello, Maria Ditaranto, Pino Lauria, Felice Lovisco, Massimo Lovisco, Marcello Mantegazza, Saverio Palladino, Jessica Salvia) e una residenza d’artista con Alice Padovani e Francesca Piovesan, a vario titolo vicine alle strategie poetiche dell’arte bizantina: trasfigurazione oltre il somatismo, uso dell’oro come linguaggio della trascendenza, opera come percorso di coscienza e astrazione.
In questi mesi ad Armento si svolgono anche i talk del ciclo “Il pane e le rose”, focalizzati sui temi della progettazione culturale fuori dai centri, in tutti i sensi, con esponenti di spicco della cultura in Basilicata e non solo. Nel frattempo, per iniziativa della sindaca Maria Felicia Bello, il paese ha riallacciato i rapporti con Castronovo di Sicilia (Palermo), paese di origine di San Vitale ove il culto è ancora vivo, e con Frascineto (Cosenza), che a partire dalle origini arbëreshe del paese ha creato un museo delle icone con affini obiettivi culturali.
Ciò che si è tentato di mettere in piedi è uno strumento culturale attivo e interconnesso al tessuto sociale, che non elegga meramente un tema a soggetto (la rievocazione in quanto tale), ma ne faccia un “metodo”, un’opportunità, un innesco di processualità, in un percorso che necessita evidentemente della partecipazione vigile della popolazione, essendo l’obiettivo finale una nuova coscienza di cittadinanza, una nuova profondità dell’abitare. Nelle migliori ambizioni, Armento e San Chirico Raparo potrebbero operare quali punti di osservazione privilegiati per alcuni fenomeni dell’arte di interesse universale, a partire da una lettura laica e civile della disciplina e della spinta spirituale che sono evocate dall’arte sacra bizantina. Nulla che abbia a che vedere con un’idea di arte confermativa e consolatoria, o di arte come orpello, decorazione, accessorio per appagare la fame di chi è già sazio.
Il metodo di “Ori e orazioni” punta invece su quella falla degli immaginari negoziati in cui l’arte è strumento attivo ed efficiente delle politiche non solo culturali, ma perfino sociali. Un percorso fragile, che necessita di cura e costanza, per la costruzione di un patrimonio che sia tanto materiale, quanto necessariamente delle coscienze.