Siamo soliti ricercare le nostre radici, pur sapendo che si perdono in luoghi a cui non potremo forse arrivare mai. Esse affondano molto prima del ricordo: ci si deve accontentare dei racconti tramandati degli avi, delle tracce, degli oggetti sui mobili della vita familiare.
Dall’avvento della fotografia, questo strumento ha assolto principalmente il compito di assicurare l’esistenza di questi ricordi, dando prova di come le cose e le persone sono apparse nel corso della storia, raccontando e tenendo traccia di come quella persona fosse fatta, o quel luogo, per poter ricostruire la trama a cui appartengono.
Le radici, allora, hanno molto a che vedere con la memoria, e la memoria, come abbiamo visto nell’articolo precedente qui sui Quaderni, ha molto a che vedere con l’immagine. Abbiamo detto, infatti, che la fotografia, utilizzata per tenere testimonianza della storia – propria o altrui – racconta l’aspetto delle cose attraverso il tempo, della fisionomia dei volti, dei costumi, delle epoche. Le proprie radici, sebbene affondano là dove non se ne conserva il ricordo, in qualche modo si possono recuperare solo attraverso il ricordo. Sono famosi gli immensi e ingarbugliatissimi alberi genealogici delle famiglie nobili, alcuni addirittura comprendenti un arco temporale di secoli. E all’albero genealogico è sempre andata di pari passo l’usanza del ritratto, della memoria visiva, oltre che nominale, di una persona: emblema del carattere e dello spirito del soggetto, il dipinto o la scultura doveva mantenere saldo, nel tempo, il fatto che quell’uomo o quella donna fossero esistiti ricoprendo quel certo ruolo sociale, avendo quel tipo di aspetto e di portamento.
La fotografia, non appena messa a punto e diffusa la tecnica dagherrotipica a metà Ottocento, ha da subito espresso il suo massimo potenziale proprio in questa direzione, permettendo a una fascia della popolazione molto più ampia di conservare traccia di sé e della propria famiglia, in modo da non disperdere le radici di chi sarebbe venuto in futuro.
In questa breve disamina, ci si può accorgere di un aspetto particolare nel processo che ha portato la fotografia ad assolvere il ruolo di traccia della memoria: la volontà specifica, da parte dei soggetti, di ricordare o di essere ricordati. La memoria si fonda sul desiderio di conservarla, e così ogni radice umana che si è conservata si fonda bene o male su questo stesso desiderio. Eppure, alcune persone, popoli interi, crescono sul presupposto di non avere alcuna radice e, quindi, sul non sentire il desiderio di legare se stessi a un luogo, né tantomeno a un’immagine specifica.
Per questo motivo si può provare una sorta di cortocircuito pensando al particolare potere della fotografia di creare radici anche di qualcosa che per propria costituzione non ne getta mai. Si pensi, infatti, a come il tema dei romanì, o zingari, abbia attratto i nomi più illustri della fotografia europea, come Josef Koudelka e Gianni Berengo Gardin.
Fotografare – che bene o male vuol dire sempre registrare, e quindi fermare, il passaggio di qualcosa – e documentare un popolo nomade, senza terra e quindi in costante movimento, significa creare un contrasto inevitabile tra una realtà e la sua rappresentazione.
Quello che si genera è infatti una sorta di conflitto dialettico tra lo specifico di una certa dimensione umana e lo specifico di una certa iconografia. Da un lato, il lavoro di Berengo Gardin, del 1994[1], è sorto sotto un progetto dalle finalità sostanzialmente politiche, rivolte a riabilitare il popolo romà all’interno della città di Firenze. Koudelka, invece, inizia ad affrontare il tema della documentazione del popolo zingaro dell’est europeo già dai primi anni Sessanta[2], con un’attrazione viscerale nei confronti della gente nomade e in costante esilio. Così, trovare il racconto del popolo zingaro immobilizzato in una pagina è facile che dia la strana sensazione di vedere intrappolato uno spirito in una scatola. “Privi di scrittura e quindi di testi che trasmettano le loro tradizioni e la loro storia, essi stessi hanno contribuito a celare o a mitizzare le loro origini.” ricorda Bianca Maria La Penna nel testo che accompagna la pubblicazione del lavoro di Berengo Gardin, grazie alla quale possiamo intendere la sostanziale indifferenza di questo popolo nel tener traccia di sé, che sia scritta o visiva; di non sentirne il bisogno, né il desiderio. L’unico desiderio che si mette in moto, in questi lavori, è soltanto quello del fotografo, che di volta in volta acquisisce la fiducia necessaria per penetrare dentro le case, spesso fatiscenti e semi distrutte, e nei campi abitativi in cui la gente vive e passa i propri giorni. Addirittura dentro le spoglie camere ardenti in cui si compie l’ultimo saluto al defunto – sovente sono bambini o ragazzi – o nelle stanze da letto mentre le mamme allattano i figli. Tutte queste immagini, che in entrambi i lavori sottolineano la complessa vitalità di un popolo che sempre, in qualche modo, non riesce a non risultarci estraneo, sono le immobili testimonianze grazie alle quali il nostro occhio può trovare un varco per avvicinarsi. Un popolo che ama disperdersi, e disperdere ogni cosa di sé, tranne le tradizioni più antiche, come la musica, l’ammaestramento degli animali, l’abile lavorazione dei metalli.
Un popolo che non conosce l’epopea della tecnica su cui invece si è basata la trama della nostra cultura, e che solo grazie all’arte tecnica può essere documentato e portato agli occhi di chi non conosce. Come viene ricordato anche nel testo che accompagna il libro del lavoro di Koudelka edito da Contrasto[3], “quella [di essere fotografati] poteva essere l’unica volta in cui gli sarebbe mai capitato, fatta eccezione per le fotografie formato tessera dei documenti.” Di questa gente inafferrabile, quasi inconoscibile, ci viene consegnata la traccia che invece la nostra cultura tanto brama, rendendo anche loro parte di una storia che potrà essere narrata, e a cui qualcuno in futuro potrà dire di appartenervi.
E vengono alla mente le parole del poeta ungherese Miklós Radnόti: ”Ero fiore, sono tornato radice”[4].
Parole che segnano con una linea veloce la parabola sottoscritta ai reportage fotografici che ci sono giunti e che abbiamo nominato, in cui lo spirito errante dei romà torna a noi dentro i muri sedentari dell’immagine, per sempre consultabili, almeno con lo sguardo.