A un anno e mezzo dall’inoculazione della guerra di Putin in Ucraina, il tema del “confine” sembra essere tornato al centro del dibattito occidentale e delle esigenze profonde di elaborazione sociale. Dopo una stagione di relativo ottimismo coltivato intorno all’immagine della “caduta dei muri” – da Berlino in poi – il confine sta divenendo, con variegate implicazioni e su variegati scenari, un tema su cui sentiamo di non poter più permetterci di sorvolare. Una differenza tanto più marcata se confrontata con l’assopimento per una serie di baruffe fino a qui percepite come sostanzialmente ininfluenti perché cronicizzate (Palestina/Israele) o perché scadute nel grottesco (Trump contro il Messico). Perfino il dibattito sulla liceità dei respingimenti dei migranti in Mediterraneo si è oggi riformulato apertamente come una questione di «difesa di un confine», come difficilmente sarebbe avvenuto in tempi passati. Un fatto “geopolitico”, potremmo dire, o più pragmaticamente strategico, ma anche linguistico, metaforico, simbolico, che ha a che fare con le categorie della percezione, con lo statuto negoziato dei concetti, di fronte alla svelata menzogna di una fine della storia, ormai derubricata a bias.
C’è da dubitare però che proprio il 24 febbraio 2022 sia successo qualcosa per cui tecnicamente abbiamo avuto ragione di riformulare il valore che diamo alla parola “confine”: come spesso accade la storiografia si serve di eventi cardinali per rappresentare processualità più lunghe e complesse, usualmente a lungo annunciate e predisposte. Né ci interessano in questa sede quei processi per cui, a seconda della tesi da sostenere, si cercano più o meno in profondità le cause di un conflitto. Ci interessa piuttosto uno stato delle cognizioni umane. Cosa ha dato una nuova forma alle nostre urgenze e alle nostre percezioni in relazione al confine? E che c’entrano i confini tracciati con denti di drago e cavalli di Frisia in un discorso sui linguaggi e le rappresentazioni?
L’Unione sovietica praticava una dottrina interessante e controversa a proposito del tema del confine: la propaganda e l’ideologia pontificavano in maniera pregnante e poetica dell’azzeramento delle rilevanze sociali legate all’appartenenza etnica o dell’amicizia tra componenti nazionali in un organismo nominalmente anti-imperialista e trans-nazionale. L’unico vero confine superstite era quello della Cortina di ferro, che diveniva letteralmente una sorta di finis terrae per un mondo strutturalmente fuori dal metodo dialettico-competitivo e pervasivo del capitalismo. La sottotraccia però celava le deportazioni strumentali e sistematiche di interi gruppi etnici, territoriali o nazionali, volte a neutralizzare ogni forma di potenziale conflittualità o a “russificare” aree strategiche per le produzioni industriali, seminando per decine di fusi orari isole, cellule e pulviscoli di popoli che alla caduta dell’Unione sovietica hanno rivelato dissapori, rancori, desideri di rivalsa, ambizioni nazionalistiche, conflitti che talvolta si spingevano – e si spingono ancora – al livello del divano in salotto.
In Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (2014), Svetlana Aleksievič racconta per esempio di come un fatto puntuale, formale, burocratico come la caduta dell’Urss abbia determinato da un momento all’altro il radicale mutamento delle dinamiche relazionali tra gruppi etnici o nazionali, spingendo il conflitto fin dentro le relazioni coniugali: ognuno, di colpo, aveva un torto da vendicare, un’ingiustizia da veder risarcita. Ancora oggi, interrogando ex cittadini sovietici, capita spesso di imbattersi in chi, anche non necessariamente aderente all’ideologia di regime e più o meno consapevole dei postumi, ricorda con nostalgia il senso di fratellanza e mutua assistenza tra nazioni che vigeva prima del 1991. Quanto a fondo questo sia storicamente vero, in questo contesto, ci interessa relativamente: ci interessa la costruzione del frame che svela o cela una certa realtà. Ci smarriamo oggi, quindi, in questioni come la diade russofono/russofilo, o tra infinitesime enclavi ed exclavi (pensiamo al Nagorno-Karabakh), operando inevitabilmente grossolane semplificazioni, astrazioni di comodo, sentenze storiche che si impelagano tra necessità di giustizia e inevitabili amnistie.
Impossibile non calpestare, qualsiasi sia la risoluzione, l’ambizione talvolta anche legittima, “esistenziale”, di parti di popolazione per il riconoscimento di una porzione di verità. Una condizione paradossale e insolvibile del tema del confine, che polverizza la sua concezione romantica e ottocentesca legata alla narrazione culturale dell’autodeterminazione, e della coincidenza tra popolo, terra, nazione, stato. E un panorama che descrive come le precondizioni per la deflagrazione di quel senso di sicurezza legato alla caduta della Cortina di ferro come confine per antonomasia, come incarnazione massima del concetto stesso di confine, fossero in realtà tutte già evidenti ed enunciate, ma deliberatamente ignorate e sottovalutate nella percezione comune.
Come se per concetti e concezioni esistessero stagioni, chiavi, prospettive percettive che cambiano la realtà pur a partire da un medesimo dato stabile.
Rivelato nella sua natura di artificio, di patto linguistico, di inessenziale convenzione, a questo punto il confine diventa un elemento tipico della giurisdizione dell’arte, che nel suo laboratorio semantico, lì dove ogni conflitto si fa forma pur non essendo forma, può rivelarci qualcosa sulle condizioni in cui si trova questo concetto: come ci aspettiamo che funzioni un confine? Quale è il suo statuto, e di quale considerazione gode nella percezione comune? “Tracciare un confine” è un bene o un male? E “difenderlo”? Tutti interrogativi a cui, forse, prima del 24 febbraio 2022 avremmo risposto con maggiore sicumera.
Tutti interrogativi dal pesante risvolto etico, che però hanno una forma, al livello del concetto e del linguaggio, che è essenzialmente estetica: la valutazione del “bene” e del “male”, da una certa prospettiva, diventa la valutazione del “bello” e del “brutto”, la ricerca di un appagamento delle nostre aspettative, la conferma rassicurante di una pareidolia delle idee, il tentativo di trovare e poi spingere quello specifico tasto che liberi endorfina o adrenalina. È brutto, e quindi male, ciò che contraddice il mio diorama del cosmo – senza voler scomodare il Nietzsche della Genealogia della morale – tracciando un profilo socio-patologico ma strutturale intorno al tema della fake news, strumento, e non agente, della distorsione collettivizzata di una realtà.
È indubbio che in molti contesti “prendiamo una posizione” – anche questa formula ha un tono bellico che non dovrebbe avere – in relazione al fronte che ci appare più compiuto, più formalmente appagante in relazione a un panorama che ci siamo formati di una questione.
Valutiamo la correttezza etica, la ragione, così come valuteremmo un’opera d’arte. E come l’arte, anche la verità muta il suo statuto in base a un indeterminabile complesso di aspettative culturali che segna quelle “stagioni” di cui si parlava precedentemente.
Si può dire che l’intera storia dell’arte contemporanea sia una storia di confini elusi, attraverso l’ironia, il frainteso, lo spiazzamento, il capovolgimento, l’artificio retorico, il motto di spirito. Dalle mele di Cézanne alla fontana di Duchamp, dai porticati di De Chirico alla pipa di Magritte, dalle spirali di Smithson ai tagli di Fontana, dalle cassettiere da ufficio di Art & Language alla banana di Cattelan, ogni atto artistico, oggi, non può far a meno di capovolgere il proprio rapporto con la referenza, di deviare il patto linguistico con l’audience, di varcare il confine della rappresentazione.
E questo, nel contemporaneo, accade perfino con la figurazione più spinta, dove la “finzionaria” frontalità dell’opera con la visione è paradossalmente, a maggior ragione, mediata da intertesti, da visioni di “genere”, dalla scelta di un percorso che è spaventosamente opzionale, tutt’altro che soggiacente su un livello comune e condiviso di progetto estetico comune, come sarebbe stato nel ’600. A caso: Mitch Griffiths, Nick Alm, Nicola Verlato, Nigel Cox, Antonio López García… da una parte non possono fare a meno di citare, dall’altra si impegnano a tradire la referenza (e il referente, inteso come soggetto), adoperando il figurativo non per figurare, come banale strumento per rappresentare, ma come complesso culturale a proposito del quale aggiungere una postilla, una nota a margine, una glossa. Se non fosse così, ci troveremmo di fronte solo oleografie, e se non è così nelle intenzioni dell’artista, lo è certamente nella percezione comune che innesca la significazione dell’opera. Il confine come istituto e come religione – vale se la gente ci crede – è solo il canone da istituire in vista di una variazione, il terreno semantico su cui stabilire una convenzione da tradire immediatamente. Il confine nell’arte contemporanea è quell’ente che è fondamentale statuire per poter allestire l’atto della sua profanazione, unico elemento di significazione ammissibile. Quella variazione, quel tradimento, quella profanazione sono il vero soggetto dell’arte contemporanea.
Fino a metà Ottocento ogni opera d’arte sembrava far parte di un progetto collettivo: il Partenone, le piramidi, il Colosseo partecipano a un progetto estetico e civile che perdura per decenni; il Romanico e il Gotico, su basi sempre chiaramente territoriali, diventano spesso espressione di una specifica visione di egemonia di un popolo; il tema della cattedrale è per lungo tempo qualcosa che si esprime come summa dello sforzo anonimo e collettivo di una comunità; il Barocco è in gran parte un’invenzione al servizio dell’assemblea radunata sotto la Controriforma, e perfino il mito dell’outsider costruito su Caravaggio non può evitare di generare il fenomeno più ampio del caravaggismo; ogni recrudescenza del classico, come l’architettura di Carlo Magno o di Federico II, come il Rinascimento o il Neoclassicismo, è un progetto di ambizione universalista e definitiva…
Dall’Impressionismo in poi l’arte borghese e il mercato affermano la possibilità di percorsi individualistici, ma ancora spiccatamente legati alla visione, al retinico, alla rappresentazione.
Dai postimpressionisti in poi, però, il terreno della contesa linguistica cambia sottilmente, insidiosamente, radicalmente, con un’estroflessione di quell’individualità sul piano di una realtà condivisa che attraverso il dubbio di uno disgrega il senso del reale di ognuno. I progetti di riforma del mondo delle avanguardie storiche finiscono il lavoro cominciato: una riforma radicale delle categorie di rappresentazione del reale, per cui ingaggiare un discorso artistico vuol dire sempre muovere un assedio al sentire comune: anche “avanguardia” è un termine mutuato dalla guerra.
Da questo momento in poi la “modernità” imporrà sempre che l’arte sia un assedio al passato, un avvicendarsi del nuovo che spinga ciò che è stato nel vetusto, nell’obsoleto. Per fare questo, il linguaggio deve essere sistematicamente sabotato, condotto al livello di massimo stress fino a diventare presto, continuamente, indefinitamente inutilizzabile.
L’arte, insomma, non è altro che sconfinamento. E non sembra casuale che proprio negli anni della caduta della Cortina di ferro il discorso dell’arte in occidente inventi il relazionale, quello specifico approccio per cui l’artista non si intende più come entità in broadcasting, come emanatore di un’opera chiusa e compiuta, ma come agente di un processo che si attua e realizza nella relazione con un pubblico che non è più spettante o contemplativo.