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uaderni de La Scaletta

Carezze d'acqua, di vento e di luce. Che importa il tempo, scuro o chiaro…

Contrabbandieri di bellezza

I confini dell’immagine e la solitudine del soggetto ( Una riflessione a partire dalle opere di due grandi fotografi: Tina Modotti e Vasco Ascolini )

Il fotografo non è soltanto un fotografo: il fotografo è anche un secondino. E una fotografia non è che un carcere, un luogo da cui chi entra non può fuggire, un oltretomba.
Così, facendo le dovute derivazioni, si potrà dire che inquadrare un soggetto equivalga a condannare a tempi immemori di reclusione chi vi entrerà, prescelto prigioniero. E senza che nessuno possa visitarlo: il soggetto, confinato entro i margini di un’immagine, prelevato dal reale e trasformato ora in icona, ora in simbolo, ora in testimone, se in quel momento si trovava solo non potrà porre rimedio mai a quel suo stato solitario se inquadrato nel mirino. Il bambino, travestito per il carnevale e immortalato nell’atto di un finto sparo, non vedendo a chi o cosa stia sparando, colpirà per sempre il vuoto; il bambino non avrà mai compagni d’avventura, il colpo stesso non potrà mai davvero uscire dalla gabbia finta e materiale della stampa.
I fotografi da sempre hanno dovuto confrontarsi con la necessaria convenzione della marginalità dell’immagine: questa entità bidimensionale che non può essere concepita con un’estensione infinita, bisognosa sempre di un’unità di misura perché ne calcoli dimensioni e proporzioni, che la renda trasportabile, e che ne faccia oggetto da cornice. L’immagine, e dunque la fotografia, non può essere infinita: e quei confini servono. Inquadrare, infatti, significa appunto scegliere cosa introdurre e cosa escludere dal nostro sguardo, lo si fa continuamente solo con gli occhi; significa procedere per sintesi e conferire a una porzione millesimale di realtà un senso, senso che deriverà da quella scelta di chiudere – ingabbiare, incarcerare – uno specifico soggetto.
I confini dell’inquadratura sono diventati uno dei principali espedienti narrativi e formali del fare fotografia, rendendo lo spazio vuoto attorno ai reclusi un mezzo comunicativo, persino estetico. Con risultati eclatanti: si pensi alle Calle (Messico, circa 1924) di Tina Modotti1, coi petali che paiono piegati dall’occlusione forzata e che per un niente non sfiorano il margine più alto. È il paradosso della fotografia questo di poter nascere all’esterno, nella libertà estesa – lei sì – all’infinito fuori dai margini dell’immagine per poi finire con la testa chiusa in un recinto invalicabile, per sempre, senza ribellione ammissibile. Tra questa libertà infinita e la finitezza dell’immagine esiste la scelta necessaria di fissare un passaggio, un’entrata e un’uscita che portino dal mondo alla sua rappresentazione frammentaria.
È l’obbligo della sintesi, della scelta delle parti da registrare; è il metodo fotografico in sé che comporta la recisione di oggetti, persone, paesaggi, che permette di bloccare ciò che è continuo, di costringere ciò che è più complesso, di trattenere, immutato, ciò che invece muta, vivendo. E’ ciò che accade varcando la soglia, diventando immagine, rappresentazione; la sfida lanciata dalla fotografia al tempo si consuma entro i suoi bordi squadrati, come Medusa pietrificando le sue vittime, rese eterne statue di se stesse. E noi a guardarle attraverso le sbarre, sporgendo la testa quel tanto per illuderci che non esistano, scomparse per un momento dalla visione laterale.
Dentro quei confini il soggetto – la statua – si trova sempre a una specifica distanza dai bordi che lo confinano; anche l’aria che gli si può lasciare attorno non può essere infinita. Quanta distanza deve esserci tra una solitudine e i limiti fisici che la confinano? Il soggetto fotografico è la statua eterna della sua solitudine, imposta da chi in un dato istante l’ha voluto guardare e immortalare; è quella solitudine la propria statua eterna.
Ma cosa si trova davvero fuori da una fotografia? Può davvero chi la guarda immaginarsi cosa esiste nello spazio esteso all’infinito, completando mentalmente la porzione di mondo incastonata dentro i margini? Forse no. Forse, al di fuori di un’immagine, non vi è che un deserto buzzatiano, una pianura bianca e immobile, non visitata da nessuno, da cui non aspettarsi nulla. In cui perdersi è tanto facile quanto guardarla da dove si è rinchiusi. Finita la nostra percezione dell’immagine, dunque, il nulla; anche noi inesistenti oltre il suo piccolo mondo. Basta guardare la fotografia del proprio primo giorno di scuola: cosa esiste oltre i gradini dell’ingresso? Dov’è il cortile da cui si entrava? Certamente non dove siamo noi adesso guardandola, come non è più là dove un tempo si trovava, mutato irrimediabilmente, magari scomparso.
Nulla oltre i confini, un “deserto dei tartari”2 in cui vaga chiunque guardi un frammento di memoria. La fotografia, allora, è questo confinare non solo chi ritrae, ma anche chi guarda, posti entrambi a una separazione reciproca incolmabile e irrecuperabile; troppa distanza intercorre, infatti, tra gli occhi vivi e quelli fissi di una scultura inanimata. Si potrebbe dire, allora, che contemplando una fotografia siamo in fondo noi a rimanere senza mondo, separati irrimediabilmente da quello che stiamo vedendo, e senza poterlo recuperare mai. Una doppia reclusione, un doppio confinamento, quindi: quello esterno non è che un altro luogo da cui uscire sembra solo apparentemente più semplice. E il nostro non è che un continuo dimenarsi dentro confini posti solo molto lontani da noi, mentre di una fotografia i confini si vedono, come di una stretta stanza chiusa a chiave. Riescono a entrare dentro il campo visivo di chi guarda, fanno parte della storia.
Aggiungere un centimetro sopra le calle di Tina Modotti significherebbe infatti raccontare altro, eccedere in bontà, rovinare l’immagine, caricarla di un pietismo che non occorre. L’occhio non può risparmiare nessuno, non può scendere a patti con chi condanna.
“Nessun uomo è un’isola”3 ma lo diventa quando viene fotografato, contratto in un’emozione sola che non potrà straripare dai suoi argini imposti. Siamo tutti un’isola dentro una fotografia, in verità, se non possiamo mai toccare la riva di un continente, o se addirittura quella riva non esiste, come non possiamo essere salvati da una mano tesa, chiusi là dentro. Guardando il naufrago non potremo raggiungerlo a nuoto per trascinarlo sulla terra ferma, non potremo consolare la vedova; noi non esistiamo di fronte a chi è rinchiuso.
Chi è rinchiuso è intoccabile anche nel dolore, come Cristo sulla croce, sacrificato ma insalvabile da mano umana. Perché il fotografo non è un dio, è soltanto un giudice; noi isole senza riparo di fronte ai prigionieri, isole anch’essi.
Se ogni fuga è un’illusione in una fotografia, come ne L’angelo sterminatore di Buñuel, in cui i protagonisti non riescono a scappare da una stanza chiusa da barriere invisibili, allora forse non resta che lasciarci illudere e dare ascolto alle parole di un altro grande fotografo, Vasco Ascolini4 (Reggio Emilia, 1937), che ama ripetere un concetto fondamentale per la sua ricerca: “L’immagine vive anche al di fuori dello scatto, e vive anche al di fuori dei suoi margini: il soggetto può entrare, può uscire, può essere appena entrato o appena uscito. C’è sempre movimento, e vita, in una fotografia.”
Dentro un’illusione si può scatenare ogni movimento, allora, l’inanimato può prendere vita; ed è per questo che nelle immagini di Ascolini, che nel corso della sua lunga carriera ha avuto modo di fotografare le opere scultoree dei principali musei del mondo, il confine dello scatto risulta di primaria importanza. Davvero pare che le statue vivano dentro gli scatti di Ascolini, opposta Medusa: sono, quelli, corpi che danno l’impressione visibile di un palpito sotterraneo, li si direbbe in grado di parlare, soffrire, presagire il proprio futuro, scambiarsi un bacio, uscire allo scoperto.
Ed è in questa nuova illusione che possiamo davvero credere di vedere l’ermafrodita respirare durante il riposo, o Apollo entrare di sfuggita dentro la sua nuova stanza fotografica. Il fotografo, illusionista del movimento, davvero può convincerci dell’esistenza di una vita là dove non potrebbe esserci, e viceversa; come Woody Allen ne La rosa purpurea del Cairo – film preferito di Ascolini – trasformare il personaggio in persona, la luce in carne. Tra il secondino e l’illusionista siamo noi a decidere, il fotografo è un Giano bifronte, noi tutti possibili statue. Come la vita di Re Artù cessa là dove cessa la pergamena, quella di Tristano là dove cessa lo spartito, quella di Giacobbe là dove cessa il muro affrescato, l’unica fuga possibile dai recinti della rappresentazione è concederci il lusso di farci ingannare; noi nuovi Geppetto, noi nuovi Michelangelo, scovando nell’inumano un gesto, un alito, una possibilità di vivere al di là del margine che lo tiene confinato.
In questo senso l’evasione è possibile solo attraverso gli occhi di chi guarda e la sua disposizione a farsi, per un momento, trasportare in un mondo sottoposto ad altre leggi; solo dentro un sogno, o in un miraggio, possiamo ritrovare il cortile di scuola, salvare il naufrago, vedere le radici delle Calle; per poter dire finalmente che solo le chimere non hanno limiti tangibili, vivendo nell’infinito spazio dell’allucinazione, dell’apparenza. Di ogni possibile rappresentazione.

Carola Allemandi
(Fotografa e autrice)
Modotti 026
Tina Modotti: Calle.

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