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uaderni de La Scaletta

La poesia in quanto tale è elemento costitutivo della natura umana

InCanto Dantesco

Dante: dentro e fuori i confini dell’umano

Concettualmente, come è noto, il termine “confine” indica ciò che delimita uno spazio e ne stabilisce la fine (cum-finis); per estensione può indicare non solo il limite entro cui qualcosa è racchiuso, ma lo stesso territorio che vi è circoscritto (quello che i Latini chiamavano fines). Ad ogni modo, il confine disciplina ciò per cui è necessario dichiararne la misura: esso è operativo nel rompere quella continuità dell’infinito che per definizione non è interrotto da alcunché.

Il mondo e l’esperienza umana di Dante sono costantemente sostanziate dall’idea del confine. Basti pensare che i tre regni ultraterreni sono scanditi da una geografia che suddivide rigorosamente lo spazio in cerchi (Inferno), cornici (Purgatorio) e cieli (Paradiso). Ogni sezione di cui ciascun regno è composto è un microcosmo che vive di vita propria, con fenomeni fisici e climatici peculiari, separato dai livelli precedenti e successivi che gli sono contigui. Nell’Inferno, ad esempio, fiumi, burroni, murature, rappresentano il confine entro cui sono racchiusi i cerchi, alcuni dei quali sono ulteriormente ripartiti in sottocategorie (si pensi al settimo cerchio dei violenti o all’ottavo, divisi rispettivamente in 3 gironi e 10 bolge). Dovendo ordinare una materia così vasta e catalogare la varietas dei peccati e delle glorie degli uomini, Dante è dovuto ricorrere ad una certa forzatura poetica, che gli ha permesso di scegliere una collocazione significativa e univoca per ciascuno dei suoi personaggi.
Se è vero che la vita è molto più complessa per giocarsi l’eternità con un semplice e sbrigativo giudizio di Minosse (Inf. V, 1-15), ogni peccatore finisce tuttavia confinato nel luogo in cui è punito il peccato che più ha caratterizzato la sua vita terrena, pur nella consapevolezza che certamente ognuno è peccatore in tanti modi e nello stesso tempo (nella vita non si pecca solo una volta e non ci si macchia di un solo peccato). Similmente nei cieli del Paradiso è inutile, e Dante lo sa, stabilire una gerarchia tra i beati: il privilegio eterno di godere della visione di Dio non è misurabile con un bilancino di precisione ed ha poco senso stilare una classifica della beatitudine. Tutti i beati godono allo stesso modo ma, ancora una volta, l’immaginazione poetica di Dante permette a ciascuno di essi di scendere dall’Empireo sino al cielo maggiormente corrispondente alla virtù di cui ciascuno ha dato prova sulla Terra: in tal modo il pellegrino potrà incontrarli nelle diverse sfere celesti. I confini spaziali entro cui sono collocate le anime nei tre regni rispondono pertanto, fatti salvi i debiti verso la tradizione poetica precedente (in primis gli Inferi dell’Eneide), a criteri di verosimiglianza poetica prima che di esattezza dottrinale. Al contempo, tutto il mondo ultraterreno di Dante è retto dal principio del confine e dal suo indebito superamento. Ogni peccato è infatti il superamento di un confine che Dio ha dato agli uomini. Il desiderio è nobile, ma se esperito in eccesso diventa gola o invidia, l’amore per se stessi è una virtù, ma se eccede diventa superbia, la moderazione è lodevole, ma se troppa degenera in accidia. Ed il precetto antico del non superare i limiti imposti dalla divinità, quello che i Greci chiamavano hybris (“tracotanza”), e che Dante evoca ricordando le figure di Fetonte, delle Piche, di Ulisse, del satiro Marsia, è alla base dell’agire cristiano: se non viene osservato si è irrimediabilmente destinati alla sconfitta, tanto più rovinosa quanto più ardito era stato il “folle volo” (Inf. XXVI, 125). Parimenti, la conoscenza è dono di Dio, e non tutto è concesso agli uomini conoscere (Purg. III, 37-39):

State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria.

L’osservanza dei confini in cui ciascuno può operare nel mondo trova riflesso anche nella concezione politica che Dante espone nel De Monarchia. Il Papa deve occuparsi del benessere spirituale delle anime senza sconfinare nelle ambizioni temporali che portano la Chiesa a tralignare e perdere autorità; parimenti l’Imperatore non può pensare di usurpare il ruolo della Chiesa e dettare legge negli ambiti che non pertengono alla amministrazione statale (è la ben nota teoria dei due Soli). Lo stesso mondo medievale che anima la Commedia è l’immagine di un’epoca quasi giunta al termine, poiché nuovi fermenti e nuove concezioni di vita si stanno affacciando prepotentemente all’orizzonte, idee laiche, mondane, profane, che tormenteranno l’inquieto Petrarca, divertiranno il brioso Boccaccio e daranno sostanza al futuro Rinascimento.
Se dunque l’uomo che supera i confini della legge morale dettata dalle norme cristiane incorre nel peccato, e invece chi rispetta i comandamenti e opera virtuosamente è meritevole della gloria del Paradiso, Dante ha tuttavia bisogno di superare i confini dell’umano per dare significazione al suo viaggio. Con le sole forze della Ragione (Virgilio), anche in compagnia della Virtù Teologale (Beatrice), l’uomo Dante non può dare voce all’Ineffabile, ha bisogno di trascendere in una esperienza mistica che trasformi il poeta in un essere eccezionale, che gli permetta cioè di “trasumanare”, un super-uomo ante litteram che non nasce niccianamente dalla morte di Dio, ma vuole al contrario indiarsi e sprofondare in lui, consapevole che l’umana favella non può tradurre, se non in maniera imperfetta, l’estasi di tale “trans-umanazione”: trasumanar significar per verba / non si porìa (Par. I, 70). Come dice il poeta nell’incipit della terza cantica (Par. I, 4-9):

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;

perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.

In tal modo, la Divina Commedia è opera concepibile solo con il superamento dei confini, siano essi materiali o simbolici, delle facoltà umane. Essa può generarsi solo da un excessus mentis, da una sorta di platonico furore di un poeta impossessato del divino, e rappresenta un unicum anche per un altro motivo: perché supera i confini di genere e si sottrae a qualsiasi classificazione. La Commedia non è infatti un poema epico o cavalleresco, non è un contrasto o un sirventese, non è una canzone o una ballata, come parimenti non è una novella, un trattato, un romanzo, un’allegoria, una sacra rappresentazione; essa è invece un insieme incredibilmente perfetto di tutti i generi letterari, immortalata anche da un metro fino ad allora sconosciuto, la terza rima, la cui invenzione si deve proprio al suo autore e per cui è anche chiamata terzina dantesca.
Se vengono meno i confini di genere, una riflessione analoga può dirsi della sua lingua. Un coacervo senza paragoni di sottocodici linguistici: il linguaggio e il lessico della religione, dell’arte, della tattica militare, della politica, della poesia amorosa, della filosofia, dell’astronomia, sono tutti parimenti presenti, come anche il gergo tecnico dei calzolai, dei tessitori, degli agricoltori, degli intagliatori, degli speziali, e insieme contribuiscono a descrivere una caleidoscopica carrellata di situazioni, eventi, personaggi, storie, emozioni, preghiere, invettive, ora abbassandosi alla più bassa trivialità, ora innalzandosi a vette poetiche di impareggiabile solennità.  Non esistono confini linguistici nella plurilinguistica elocuzione dantesca, una caratteristica che ha reso il sacro poema inimitabile e che si è paradossalmente rivoltata in un limite, poiché tale lingua, secondo la linea di Bembo prevalsa a partire dal Cinquecento, non poteva configurarsi come un modello per la letteratura del futuro.
La Divina Commedia è pertanto il poema del confine e del suo superamento; ma altrettanto può dirsi dell’esistenza del suo autore, segnata dall’allontanamento doloroso dai confini della sua Firenze: l’accusa di baratteria del 1302 costrinse infatti il poeta, per quasi un ventennio e fino alla morte, ad una vita di peregrinazioni tra le corti italiane, gli anni d’essilio e di povertate (Conv. I 3, 4), un periodo tuttavia fervido per la produzione letteraria. È noto che Dante era stato nei mesi del suo priorato (giugno-luglio 1300) un energico oppositore delle ambizioni del Papa Bonifacio VIII, e per tale cagione divenne oggetto dell’invidia e della vendetta dei Guelfi Neri, spalleggiati dal Papa e dal suo sostenitore Carlo di Valois (fratello del re di Francia Filippo IV il Bello) che si era impadronito di Firenze nel 1301: con un tranello ordito direttamente da Bonifacio, il poeta fu trattenuto a Roma e fu prima condannato in contumacia al confino per due anni il 27 gennaio 1302, poi, il 10 marzo 1302, non essendosi presentato per discolparsi, al rogo.

Cosa ci resta oggi della lezione dantesca? Certamente Dante ci insegna a mantenerci sempre nei nostri confini, siano essi i ruoli di cui siamo investiti o le nostre condotte di vita: il suo mondo è regolato da precise regole civili, etiche, religiose, ogni aspetto della vita umana è disciplinato da due autorità, l’una temporale e l’altra spirituale, a ciascuna delle quali spetta il compito di tradurre sulla Terra la missione di reggere i destini voluti da Dio. Anche l’Impero è voluto da Dio, e l’imperatore altro non è se non un baiulo, come dice Giustiniano nel Paradiso (VI, 73), ossia un reggitore, un governatore di un compito che Dio stesso gli ha assegnato. Ogni potere, anche quello che crediamo dotato di agire illimitato, deve mantenersi entro i confini stabiliti da quell’unica legge dettata da chi confini e limiti non ha, il Dio Creatore. Ma Dante ancora ci lascia l’idea che per aspirare a qualcosa di più grande, come l’operazione di tradurre la visione del Paradiso in parole umane, c’è bisogno di una prova di coraggio, un convinto sforzo delle nostre limitate facoltà che devono tentare, pur senza la sicurezza della buona riuscita, di elevarsi a raggiungere altezze prima inconcepibili.
È lì che si gioca la dignità dell’uomo.

Fjodor Montemurro
(Professore e Presidente della Società “Dante Alighieri” di Matera)
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Federico Zuccari : Divina Commedia, 1586-1588. (Foto da Didatticarte.it)

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