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uaderni de La Scaletta

Come un’esistenza tutta di madreperla che solamente di luce si nutra, ed eterna duri

Camera con vista

Guardare il cielo, per superare il caos: spunti dalla Gerusalemme liberata.

C’è un momento particolarmente suggestivo che marca il confine tra il “noi” Cristiano e il “loro” pagano – ovvero tra bene e male – nella Gerusalemme liberata, il capolavoro di Torquato Tasso ambientato al tempo della prima crociata (1096-1099). Si tratta del concilio infernale, uno dei più belli e toccanti che la storia letteraria ci abbia consegnato. Nel canto IV Plutone, è questo il nome pagano che Tasso dà a Lucifero, chiama a raccolta le forze del male per contrastare l’avanzata delle truppe cristiane, pronte a prendere Gerusalemme.
Il suo ritratto, lontano da quello schematico e abnorme dell’immaginario dantesco, assume ora dei connotati nuovi. Lo caratterizza un’umanità non diversa da chi vive nella ‘luce’, simile e soltanto invertita di segno, quello della tragedia che l’ha collocata per sempre, e irreversibilmente, nell’oscurità. Plutone, dopo aver ripercorso le ragioni che lo hanno condotto dalla parte del male, alla grande caduta (il «gran caso») negli inferi (l’«orribil chiostra»), intende contrastare l’ulteriore minaccia che si sta apparando ai suoi danni, dopo i due massimi affronti già subiti, la cacciata dal Paradiso terrestre e la venuta di Cristo sulla terra.
Ecco una parte del discorso con cui motiva gli adepti del suo regno affinché impediscano la conquista cristiana della pagana Gerusalemme:

Tartarei numi, di seder più degni
là sovra il sole, ond’è l’origin vostra,
che meco già da i più felici regni
spinse il gran caso in questa orribil chiostra,
gli antichi altrui sospetti e i feri sdegni
noti son troppo, e l’alta impresa nostra;
or Colui regge a suo voler le stelle,
e noi siam giudicate alme rubelle.

Ed in vece del dì sereno e puro,
de l’aureo sol, de gli stellati giri,
n’ha qui rinchiusi in questo abisso oscuro,
né vuol ch’al primo onor per noi s’aspiri;
e poscia (ahi quanto a ricordarlo è duro!
quest’è quel che più inaspra i miei martìri)
ne’ bei seggi celesti ha l’uom chiamato,
l’uom vile e di vil fango in terra nato.

Né ciò gli parve assai; ma in preda a morte,
sol per farne più danno, il figlio diede.
Ei venne e ruppe le tartaree porte,
e porre osò ne’ regni nostri il piede,
e trarne l’alme a noi dovute in sorte,
e riportarne al Ciel sì ricche prede,
vincitor trionfando, e in nostro scherno
l’insegne ivi spiegar del vinto Inferno.

Ma che rinovo i miei dolor parlando?
Chi non ha già le ingiurie nostre intese?
Ed in qual parte si trovò, né quando,
ch’egli cessasse da l’usate imprese?
Non più déssi a l’antiche andar pensando,
pensar dobbiamo a le presenti offese.
Deh! non vedete omai com’egli tenti
tutte al suo culto richiamar le genti?

Noi trarrem neghittosi i giorni e l’ore,
né degna cura fia che ‘l cor n’accenda?
e soffrirem che forza ognor maggiore
il suo popol fedele in Asia prenda?
e che Giudea soggioghi? e che ‘l suo onore,
che ‘l nome suo più si dilati e stenda?
che suoni in altre lingue, e in altri carmi
si scriva, e incida in novi bronzi e marmi?

Che sian gl’idoli nostri a terra sparsi?
ch’i nostri altari il mondo a lui converta?
ch’a lui sospesi i voti, a lui sol arsi
siano gl’incensi, ed auro e mirra offerta?
ch’ove a noi tempio non solea serrarsi,
or via non resti a l’arti nostre aperta?
che di tant’alme il solito tributo
ne manchi, e in vòto regno alberghi Pluto?

Ma perché più v’indugio? Itene, o miei
fidi consorti, o mia potenza e forze:
ite veloci, ed opprimete i rei
prima che ‘l lor poter più si rinforze;
pria che tutt’arda il regno de gli Ebrei,
questa fiamma crescente omai s’ammorze;
fra loro entrate, e in ultimo lor danno
or la forza s’adopri ed or l’inganno.

(Gerusalemme liberata, Canto IV, ottave 9-15, testo tratto dell’edizione Caretti, come nelle seguenti citazioni)

L’obiettivo strategico con cui le forze del male vengono chiamate a raccolta è proprio quello della dispersione e dell’erranza, forze centrifughe che distoglieranno le truppe dall’obiettivo della presa di quel centro morale, ideale e geografico che è Gerusalemme, come poco più avanti il dio del male precisa:

Sia destin ciò ch’io voglio: altri disperso
se ‘n vada errando, altri rimanga ucciso,
altri in cure d’amor lascive immerso
idol si faccia un dolce sguardo e un riso.
Sia il ferro incontra ‘l suo rettor converso
da lo stuol ribellante e ‘n sé diviso:
pèra il campo e ruini, e resti in tutto
ogni vestigio suo con lui distrutto. – (IV, 17)

La strategia di distruzione dell’unità dell’esercito cristiano sarà affidata alla irresistibile figura di Armida, principessa e maga bellissima, nipote di Idraote, mago e signore di Damasco (consigliere di Plutone e precettore della nipote), che ordisce il piano e la convoca per l’opera distruttiva:

Esso il consiglia, e gli ministra i modi
onde l’impresa agevolar si pote.
Donna a cui di beltà le prime lodi
concedea l’Oriente, è sua nepote:
gli accorgimenti e le più occulte frodi
ch’usi o femina o maga a lei son note.
Questa a sé chiama e seco i suoi consigli
comparte, e vuol che cura ella ne pigli.

Dice: – O diletta mia, che sotto biondi
capelli e fra sì tenere sembianze
canuto senno e cor viril ascondi,
e già ne l’arti mie me stesso avanze,
gran pensier volgo; e se tu lui secondi,
seguiteran gli effetti a le speranze.
Tessi la tela ch’io ti mostro ordita,
di cauto vecchio essecutrice ardita. (IV, 23-24)

La tela che la maga, dietro la sua studiata apparenza angelica, tesserà sotto il suo “senno maturo”, vale a dire dietro la sua smaliziata furbizia, consisterà nell’irrompere nel campo cristiano e nel sedurre i cavalieri con il corpo e con la parola. Già nella descrizione di Armida emerge un tratto centrale del poema, quello del sottile confine tra ciò che appare e ciò che è, tra la percezione e la realtà, mai chiaramente distinguibili. Armida padroneggia, sotto le sue bionde chiome e il suo fare ingenuo, le «occulte frodi», ovvero i nascosti inganni di cui è capace. Sarà l’esecutrice perfetta dell’iniziale proposito di Plutone, per il quale i «danni» da arrecare ai cristiani saranno generati appunto dagli «inganni» (significativa la loro collocazione in rima nell’ottava 15). Armida giunge così al campo cristiano, come un miracolo, una cosa “nuova”, mai vista in terra, una cometa, e con la sua forza esplosiva e sensuale squarcia il velo del ‘dovere’ bellico dei “Franchi”, ipnotizzandoli in un’ammirazione incondizionata e totale:

Dopo non molti dì vien la donzella
dove spiegate i Franchi avean le tende.
A l’apparir de la beltà novella
nasce un bisbiglio e ‘l guardo ognun v’intende
sì come là dove cometa o stella,
non più vista di giorno, in ciel risplende;
e traggon tutti per veder chi sia
sì bella peregrina, e chi l’invia.

Argo non mai, non vide Cipro o Delo
d’abito o di beltà forme sì care:
d’auro ha la chioma, ed or dal bianco velo
traluce involta, or discoperta appare.
Così, qualor si rasserena il cielo,
or da candida nube il sol traspare,
or da la nube uscendo i raggi intorno
più chiari spiega e ne raddoppia il giorno. (IV, 28-29)

Il compito di Armida è quello di piegare la “forma”, il suo sembiante esteriore, al fine progettato, quello di sedurre e portare dalla sua parte il campo cristiano, dissimulando la sua vera natura. Di ciò è visibile metafora, incarnata sensualmente, il vedo-non vedo innescato dal velo bianco (quello di un falso pudico candore) che, spostandosi, di tanto in tanto lascia maliziosamente intravedere la chioma, così come, poco più avanti, accade con le «nevi ignude» del candido seno:

Mostra il bel petto le sue nevi ignude,
onde il foco d’Amor si nutre e desta.
Parte appar de le mamme acerbe e crude,
parte altrui ne ricopre invida vesta:
invida, ma s’a gli occhi il varco chiude,
l’amoroso pensier già non arresta,
ché non ben pago di bellezza esterna
ne gli occulti secreti anco s’interna. (IV, 31)

Il gioco seduttivo della maga innesca, per converso, il gioco dell’immaginazione dei cavalieri, che, dietro quei velati e sensuali accenni, cercano con la mente di completare la mappa del corpo del desiderio, fantasticando sui suoi «occulti secreti», ovvero su ciò che ancora di quel corpo non è stato visto.
Per completare la sua opera di frode, Armida chiede di essere ascoltata da Goffredo, il condottiero a capo dell’esercito cristiano, e racconta di essere un’erede al trono costretta ingiustamente a un matrimonio infelice da un crudele zio. Di fronte a questa toccante ‒ quanto falsa ‒ invenzione, il codice cortese e quello del desiderio si fondono così in un pericoloso intreccio: Goffredo,è l’unico a fiutare l’inganno, ma a poco varranno le sue resistenze. L’eros, forza uguale e concorrente con l’ideale di conquista che muove i crociati, ha preso il potere tra i soldati, che a gara intendono soccorrere Armida velando sotto la vera motivazione, quella della spinta passionale, la necessità di tenere fede al codice cavalleresco.
L’eros è energia dispersiva, che polverizza l’uno cristiano e concorre all’erranza, che è anche significativamente errore, così come erroneo ed errante è tutto il mondo pagano.
Nel canto IX, Plutone-Lucifero interverrà ancora una volta con la sua forza dispersiva, inviando la furia Aletto, che giunge in sogno a Solimano (capo dell’esercito pagano) sotto le sembianze di un suo consigliere e lo incita ad attaccare senza esitazione i cristiani. Prenderà così avvio una battaglia sotto un cielo cupo, tinto dei più foschi presagi, e quando gli esiti della battaglia sembreranno sempre più incerti, comparirà «Egli e buono e giusto», colui che

dà legge al tutto e ‘l tutto orna e produce
sovra i bassi confin del mondo angusto,
ove senso o ragion non si conduce;
e de l’Eternità nel trono augusto
risplendea con tre lumi in una luce. (IX, 56)

È un «mondo angusto», quello degli uomini, in cui «senso e ragion» non bastano per giungere al Tutto. Il sistema duale, quello tra “noi” e gli “altri”, della Gerusalemme si affianca a uno speculare conflitto interno all’uomo, in cui si dispiega l’atroce e costante lotta tra ciò che è giusto compiere e ciò che il desiderio impone, tra la spinta all’elevazione e l’ancoraggio alla materia.
In un mondo in cui anche i “buoni” possono errare o deviare dalla loro missione, guardare in alto, oltre i «bassi confini» umani, resta l’unica salvezza.

 

Cristina Acucella
(Ricercatrice di Letteratura Italiana, Dip. di Scienze Umane, Università degli Studi della Basilicata)
Francesco Montelatici, detto Cecco Bravo. Armida, 1650 circa
Francesco Montelatici anche detto Cecco Bravo: Armida, 1650 circa

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