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uaderni de La Scaletta

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Democrazia e futuro

La liberal-democrazia e l’arte della separazione: perché la libertà di odiare non è libertà di espressione

La teoria politica liberale insegna che la democrazia si fonda su quella che il politologo americano ha chiamato “arte della separazione”. Arte della separazione significa tracciare confini: confini che riflettono le differenze della società complessa e altamente differenziata in cui ci accade di vivere (fatta di sottosistemi specializzati per funzione, relativamente autonomi anche se interdipendenti l’uno dall’altro); confini che riguardano le diverse sfere in cui si esercita l’attività umana (economia, diritto, morale, cultura ecc.) e che sono il portato della sua differenziazione funzionale; confini che separano lo stato dalla società civile, il governo dai cittadini, il potere legislativo da quello esecutivo e giudiziario. Potremmo quasi dire che una condizione fondamentale per la sopravvivenza e la riproduzione della società moderna, nella forma che ha contribuito alla sua affermazione nel mondo occidentale, stia proprio nella capacità di tracciare confini.
Confini che non devono essere superati, per consentire appunto a quel tipo di società di funzionare nel modo migliore.
Le polemiche giornalistiche dell’estate che ci siamo da poco lasciati alle spalle ci hanno consegnato un nuovo personaggio salito agli onori delle cronache: un alto grado dell’Esercito italiano, che è stato comandante di forze speciali in scenari internazionali particolarmente critici, dove l’Italia era impegnata in operazioni di Peace keeping o Peace enforcing. Questo personaggio ha dato alle stampe, a proprie spese, quindi senza trovare un editore (oggi, a quanto pare, ne troverebbe diversi!) un libro dal titolo Il mondo al contrario, che in breve tempo ha scalato le classifiche delle vendite, nelle quali figura ormai da circa sei settimane, dopo esservi stato anche in testa per quel che riguarda la saggistica. Stiamo ovviamente parlando del Generale di Divisione Roberto Vannacci.
Di Vannacci, qui non ci interessa la vis polemica scagliata con grande violenza verbale verso diverse categorie sociali in nome di una presunta anormalità che le caratterizzerebbe.
Ma siamo viceversa assai interessati al tipo di polemica che ha contribuito ad alimentare sulla stampa e nell’opinione pubblica, in ragione di quell’affascinante corto circuito teorico che ha spinto molti importanti opinionisti e intellettuali a prenderne le difese, in nome di quello che sarebbe un fondamentale pilastro della cultura liberale, che nell’era dei diritti non può non risuonare come un legittimo richiamo alla tolleranza, cioè “il diritto all’odio”.
Se prendiamo sul serio questa rivendicazione, ringraziando il Generale Vannacci che con il suo libro ce ne ha fatto ricordo, dobbiamo riconoscere come nell’ambito della cultura liberale che ho appena richiamato rispetto all’arte della separazione, essa porti alla luce una irriducibile tensione fra due valori fondamentali: la libertà di espressione e la libertà di comportamento. Cioè a dire: da una parte la possibilità che in una liberal-democrazia deve essere assicurata di poter manifestare il proprio pensiero liberalmente, qualunque esso sia; dall’altra la libertà che sempre in una liberal-democrazia deve essere garantita a comportamenti e stili di vita i più diversi, sempre che ciò non contrasti con il rispetto delle altrui libertà. Non si tratta, com’è facile intuire, di un problema da poco. Ed è proprio per questo che ci interessa discutere del bailamme di opinioni che si è creato intorno al libro di Vannacci.
La manifestazione pubblica di odio verso gli altri, a vario titolo identificabili come particolari categorie sociali in ragione dei loro comportamenti e stili di vita, si situa al confine fra le due libertà menzionate. Uno di quei confini che è opportuno tenere d’occhio e allertare se si ha a cuore la tenuta della nostra democrazia. Un caso limite, quello del libro di Vannacci, che comporta il rischio di valicare quel confine fra diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero e diritto di non essere discriminati per condotte e stili di vita non largamente condivisi, che può essere potenzialmente violato invocando una libertà contro un’altra.
Diciamo da subito che tracciare un confine fra libertà di espressione e libertà di comportamento non è così semplice. Come sempre, l’arte della separazione liberale richiede l’esercizio di una certa maestria ed equilibrio. Anche se occorre notare che la possibilità di tali violazioni è “asimmetrica”. Nel senso che in nome della libertà di espressione si può invocare licenza nell’umiliare persone che hanno comportamenti poco graditi, ma in nome della libertà di comportamenti e stili di vita è assai più difficile violare le libertà di chi non la pensa allo stesso modo.
Poiché al massimo si può urtare la sensibilità di questi ultimi, che restano comunque liberi di tenere comportamenti e stili di vita in contrasto con quelli che deprecano, senza violare la libertà di alcuno.
Risolvere conflitti tra diritti, è di questo che stiamo parlando, impone di riflettere su ciò che rende l’osservanza di tali diritti un aspetto irrinunciabile e in quanto tale fondamentale della nostra forma di convivenza civile, conquistata in quell’angolo di mondo che è l’occidente – è proprio il caso di ricordarlo – dopo secoli di guerre civili e religiose.
E a fondamento di tali diritti si trova, in ultima istanza, una legittima pretesa di cittadinanza, ovvero di appartenenza alla medesima comunità politica, di individui che nelle nostre società si caratterizzano per preferenze, gusti, inclinazioni, comportamenti, ragioni per credere e agire assai diverse fra loro. Ronald Dworkin, fra i maggiori studiosi di filosofia politica e del diritto del secolo scorso, che ha occupato la prestigiosa cattedra di Jurisprudence di Oxford dopo Herbert Hart, aveva individuato questo principio fondamentale nel concetto di eguale considerazione e rispetto (equal concern).
Cioè a dire: ogni membro di una comunità politica, ogni cittadino, gode di un fondamentale diritto all’eguale considerazione e rispetto, all’eguale dignità, rispetto a ciascun altro. È questo in ultima istanza che ne fa un membro a tutti gli effetti di quella comunità. E tale diritto all’eguale dignità vale come una sorta di “briscola”, ossia di carta che può essere giocata, pretesa che può essere invocata, nel momento in cui avverte che la sua appartenenza alla comunità politica è messa in discussione da qualcosa o qualcuno.
Sulla base di questo principio fondamentale, Dworkin perviene a definire la teoria liberale come essenzialmente incardinata su due assunti principali: una nozione “costitutiva” di eguaglianza, l’eguale considerazione e rispetto per tutti, e una nozione “derivata” di libertà, un eguale sistema di libertà riconosciuto a chiunque, stante un pari sistema di libertà valido per ciascun altro. Una prospettiva che, illuminando le architravi su cui poggia la concezione della cittadinanza nella nostra democrazia, sostiene come prima venga l’affermazione di pari dignità e soltanto dopo, in conseguenza di tale affermazione, venga il riconoscimento delle pari libertà.
Da questo punto di vista, non vi è dubbio che un limite elementare, quanto decisivo ai fini della convivenza civile, che dovrebbe quasi spontaneamente imporsi alla libertà di espressione consiste nel rispetto degli altri. Ma è altrettanto vero che per affermare si tratti di un confine “spontaneamente” inteso all’esercizio delle proprie libertà occorre che vi sia un terreno culturale minimamente condiviso fra i membri della comunità politica, che di solito risulta associato alla distinzione fra ciò che è una concezione di vita buona e ciò che viceversa attiene a una concezione di giustizia. Laddove una concezione di vita buona risponde al complesso di interessi, identità, aspettative di comportamento in cui personalmente ciascuno di noi si riconosce, mentre una concezione di giustizia riguarda il nostro modo di trattare nella comunità politica chi si riconosce in concezioni di vita buona diverse dalle nostre.
La libertà di odiare o di discriminare qualcun altro, che viene abitualmente esercitata richiamando la cosiddetta “natura delle cose”, ossia l’idea per cui la concezione di vita buona in cui si crede sia l’unica vera e possibile (chiaro è l’esempio della pallavolista italiana Egonu, i cui tratti fisionomici non corrisponderebbero a quelli che siamo abituati a riconoscere in una persona di nazionalità italiana), non è perciò una libertà. E non può essere considerata una libertà perché il confine fra libertà di espressione e libertà di comportamento non può essere violato in nome della discriminazione di chi si riconosce in stili di vita diversi dai nostri. Vi è tuttavia da chiedersi come sia stato possibile che nelle nostre società, governate attraverso regimi democratici, abbiano potuto affermarsi rivendicazioni fondamentaliste e forme di fanatismo, non soltanto verbali – basti ricordare l’assalto a Capitol Hill, sede del Congresso americano, il 6 dicembre del 2021, da parte dei sostenitori di Donald Trump – , che mirano ad erodere le basi della nostra convivenza civile. E forse occorrerebbe interrogarsi più seriamente su questi fenomeni, invece che sottovalutarne le conseguenze e gli effetti più ampi e di lungo periodo, come di frequente fanno gli organi di informazione. È evidente che qualcosa non funziona più nella democrazia per come l’abbiamo fin qui conosciuta nel mondo occidentale e che per dare una risposta a tali disfunzioni occorra anzitutto riconsiderare le condizioni che definiscono il senso della cittadinanza democratica, ossia della nostra comune appartenenza a una data comunità politica.
L’arte della separazione, ossia la capacità di tracciare confini, su cui si basa la nostra democrazia è peculiare alla nostra forma di vita, su cui abbiamo visto affermarsi e prosperare le società che abitano il nostro angolo di mondo, quell’occidente che ha avuto modo di rappresentare un caso unico nella storia dell’umanità, proprio perché è stato in grado di riconoscere la varietà come un fattore decisivo per l’adattamento alle sfide imposte dal cambiamento. Conculcare o disconoscere quella varietà significa impedire alla nostra società di continuare a crescere, svilupparsi e prosperare. I confini su cui si è costruita la società moderna, l’economia di mercato, la democrazia rappresentativa e le loro istituzioni, sono il tessuto fragile ma decisivo che ha fatto di noi occidentali quello che siamo, nelle nostre diversità etniche, razziali, culturali, religiose, sessuali, nella caleidoscopica varietà che abbiamo saputo ricomporre in maniera efficace nella nostra forma di convivenza civile.
Se lo ricordi il generale Vannacci e tutti coloro che in televisione e sulle pagine dei giornali, in queste settimane, hanno sostenuto che criticare il suo libro era in contrasto con il riconoscimento della libertà di espressione.

Luciano Fasano
(Professore Unimi e Coordinatore Scientifico per il Circolo Culturale La Scaletta del progetto “Democrazia e Futuro”)

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