Je m’appelle Olympia è un’azione per luci di sala che ho eseguito dal vivo una volta sola, il 12 aprile 2012, all’Olympia Music Hall, l’iconico e leggendario teatro parigino. Le sedici fotografie che compongono la serie, recentemente esposta nell’omonima mostra al Museo MAN di Nuoro (14 luglio — 17 settembre 2023), sono state scattate lo stesso giorno, subito dopo l’attivazione dal vivo della coreografia luminosa nello spazio vuoto del teatro, che ha coinvolto tutte le tredici piste di luci colorate integrate in modo permanente nell’architettura. Con inquadratura fissa, simile ma non identica, seguendo la precisa partitura originale che ho composto per l’occasione, le immagini restituiscono una sequenza di diversi movimenti di luce all’interno della sala. La serie fotografica diventa così una nuova sintesi dell’immagine-idea e dell’intenzione all’origine della performance: attivare un teatro senza alcuno spettacolo, suonarlo dal vivo, risvegliarne la memoria latente, la vita segreta sottratta allo sguardo dello spettatore. Scomponendo la durata dell’azione in fotogrammi che possono essere visti sia singolarmente sia nel loro insieme, la declinazione spaziale dell’opera permette così di abbracciarne l’idea in un unico
Per la mostra al MAN, nella quale il lavoro fotografico, prodotto per l’occasione, veniva per la prima volta presentato al pubblico, ho pensato allo spazio espositivo del museo come a un piccolo teatro, a cui accedere attraverso un sipario di velluto rosso. Anche il pavimento delle sale era rosso acceso, come le poltrone di Olympia. Ho infatti cercato di creare uno spazio “altro”, sospeso, sottratto all’interferenza di suoni o segni.
Le sedici fotografie, in cornice nera e fondo bianco, tutte installate alla stessa altezza, scorrevano sulle pareti abbracciando l’intero spazio, costituito da tre vani passanti. Unica pausa, in una delle rientranze, una teca sospesa che presentava la partitura dell’azione per luci, e la piccola cornice con l’invito originale dell’aprile 2012. Arrivato sul fondo della sala, lo spettatore girandosi si trovava davanti un sipario chiuso, come lo era quello di Parigi durante l’azione per luci. Dopo molti anni, in un altro luogo, si è così chiuso il cerchio, l’asse del tempo e quello dello spazio ormai inscindibilmente fusi uno con l’altro, e l’opera è compiuta, suggellata dal libro d’artista in formato leporello pubblicato da NERO, anch’esso con la copertina di uno sfavillante rosso Olympia.
Flashback: ho vissuto a lungo a Parigi, in momenti diversi della mia vita, a volte in occasione di una residenza d’artista, a volte perché sceglievo di restare, ma sono entrata all’Olympia Music Hall per la prima volta soltanto nel novembre del 2011, per un concerto della musicista inglese Anna Calvi. Vado spesso al cinema o a teatro da sola, mi piace molto farlo perché mi mette nella condizione di guardare e ascoltare con maggiore intensità. Anche quella sera ero sola e a un certo punto, durante il live, ho percepito fisicamente l’emozione provocata dal movimento e dalle dissolvenze delle luci in contrasto con la monumentalità, in qualche modo romantica, segnata dal tempo e le sue storie, di quello splendido teatro. Al di là della musica, oltre il palco.
A fine concerto non riuscivo a lasciare la sala e, man mano che si svuotava dal pubblico, Olympia diventava ai miei occhi sempre più imponente, magica, misteriosa. Sono uscita per ultima, con il desiderio di fare della sua stessa architettura la protagonista di un’opera, prima o poi, di rendere lei stessa spettacolo, non più soltanto l’elegante cornice o l’iconico sfondo di qualcosa che avviene però su scena. L’occasione si è presentata pochi mesi dopo, quando il Pavillon, Sito di Creazione Permanente del Palais de Tokyo, ha deciso di festeggiare i suoi dieci anni di storia con una mostra dal titolo This and There, curata dall’artista Claude Closky, negli spazi della Fondation Pernod Ricard.
Muovendosi sul confine tra visibile e invisibile, l’idea alla base della sua proposta era che ogni artista scegliesse un luogo o un tempo fuori dallo spazio espositivo (There) dove far succedere qualcosa (This), la cui traccia o coordinata sarebbe poi stata presente in mostra. Io ho scelto l’Olympia. Ho proposto di attivare il teatro con una coreografia luminosa, un’azione scritta per le sole luci di sala, da realizzare un’unica volta, per un pubblico scelto di invitati. Une pièce unique. Senza questo contesto di produzione a sostenermi, dubito avrei mai potuto avere l’intero teatro vuoto a mia disposizione. È stato fantastico!
Ma come dicevo prima, all’origine dell’opera c’è una sensazione fisica, un’intuizione prima ancora che un’idea. A volte i luoghi ci parlano, o si rivelano in modo inatteso. L’immagine che ha preso forma nella mia mente era quella di una coreografia luminosa che si attiva all’improvviso nello spazio vuoto della sala, in un momento della giornata in cui non è previsto nessuno spettacolo e il teatro riposa disabitato e silenzioso. Come un’esplosione di energia accumulata nel corso degli anni, come la rivelazione inaspettata di una vita segreta che riguarda soltanto l’edificio. Una splendida macchina celibe. Che cosa ha vissuto Olympia? Quante cose ha visto? Quante storie si sono intrecciate negli anni sotto la sua volta blu elettrico? Io non so rispondere. Spettatrice privilegiata, testimone silenziosa, intima confidente, memoria storica, spazio del possibile. La prima persona singolare del titolo le restituisce un ruolo da protagonista. È il teatro stesso che parla.
Mi piace pensare a questo lavoro nei termini di azione invece che di performance, perché la parola azione mette maggiormente in risalto l’aspetto meccanico, impersonale, macchinico del movimento di luci, che si è svolto infatti nell’assoluta assenza di presenze fisiche, immagini e suoni. Ma lo immagino anche come una coreografia luminosa, nella quale quella geometria che prende forma nello spazio della sala è calibrata su un tempo, e strutturata da un ritmo, come accade per il movimento dei corpi.
Volendo ricostruire i diversi passaggi del processo di lavoro, dopo quel primo momento fisico-intuitivo solitario di cui ho parlato, e la successiva conferma della disponibilità del teatro ad accogliere il mio progetto, qualche giorno dopo ho fatto un sopralluogo di alcune ora, per prendere visivamente le misure dei volumi architettonici interessati dalle diverse luci. Ho poi lavorato alla composizione ritmica e alla coreografia, scrivendo per lo più a mente, a distanza, una partitura per le tredici piste luminose in dotazione alla sala, pensandole come forme, volumi e colori che agiscono e si alternano nello spazio. Il momento dell’azione dal vivo è stato poi centrale. Nel farla pensavo: sto suonando il teatro.
Un concerto per luci sole. Per chi come me non ha mai imparato a suonare uno strumento, ma ama profondamente la musica e ha visto decine di concerti sotto palco, è stata un’esperienza incredibile. Poiché la pulsantiera che comanda le luci di sala si trovava dietro le quinte, in una posizione che non permette a chi la attiva di vedere la sala, ho dovuto chiedere a un tecnico di schiacciare i pulsanti e di calibrare gli ingressi al mio posto, secondo le indicazioni che gli sussurravo in cuffia, mentre io stavo sul palco, nascosta dietro al sipario chiuso. Come un direttore d’orchestra, ascoltando lo spazio dettavo il ritmo dei cambi di quadro, delle entrate, delle uscite, delle pause e delle dissolvenze.
Il pubblico che entrava in sala si trovava all’inizio in uno spazio vuoto, silenzioso, immerso in una semioscurità sospesa, la platea deserta. Di fronte, il sipario chiuso, quasi a negare allo sguardo l’abitudine di rivolgersi direttamente alla scena. Finché tutt’a un tratto le luci hanno cominciato a vibrare, a caricarsi di elettricità, fibrillanti, fino ad esplodere in un movimento ritmico che è durato una trentina di minuti. Poi, di colpo, con una dissolvenza a nero, il ritorno alla penombra. Solo la luce di due quartz rossi a vegliare vigili sulla sala. All’uscita, lo spettatore trovava ad aspettarlo un foglio con un mio breve testo, pensato come un a parte, che in gergo teatrale è quella battuta che l’attore sembra pronunciare tra se e sé, ma in realtà è rivolta al pubblico (che cosè un a parte l’ho imparato da Tacita Dean, straordinaria artista inglese, che ama definire così i testi che accompagnano i suoi film).
Infine, subito dopo che il pubblico se n’era andato, sono state scattate le fotografie che compongono la serie stampata oggi, nel 2023. Non mi capita sempre di avere uno sguardo così prospettico nel mio lavoro, ma in questa occasione, vista anche l’eccezionalità del luogo, avevo già deciso che l’opera si sarebbe realizzata in due momenti distinti, complementari: l’azione per luci, che ha a che fare con il tempo, la durata, l’esperienza dal vivo; e le fotografie, che invece investono lo spazio, e scompongono quella stessa durata in fotogrammi, visibili sia singolarmente sia nel loro insieme. L’immagine è quindi un secondo passaggio, come un’ulteriore forma di articolazione del pensiero, un modo di restare, di fare esistere l’idea non attraverso una semplice documentazione dell’azione, ma in una diversa, nuova, sintesi. Nonostante si tratti di immagini, è infatti il tempo a confermarsi l’elemento centrale in questo lavoro: così come è un’azione per luci con una durata, Je m’appelle Olympia è un’opera fotografica time-based.