La parola confine viene dal latino “confinium,” ed è composta da due elementi: “con,” che significa “insieme,” e “finis,” che significa “fine” o “limite.” Letteralmente, “confinium” significa “limite comune.” La parola è stata successivamente adottata nelle lingue europee, tra cui l’italiano, il francese, lo spagnolo e altre lingue, mantenendo il suo significato di linea o limite che separa due aree geografiche o giurisdizioni. Ma i tipi di confini ormai nel nostro uso corrente sono molti: geografico, politico, culturale, economico, virtuale, personale, naturale, temporale.
Ho sempre pensato il confine come un punto di contatto, un luogo di scambio piuttosto che un limite difficilmente valicabile. Ormai sappiamo che oltre le colonne d’Ercole il mondo continua. Che di qua e di là della grande muraglia ci sono grandi culture, visioni del mondo diverse che hanno radicamenti forti e che hanno dato vita a esperienze degne di studio e memoria. Nel nostro tempo, assai facilmente, possiamo andare oltre il confine e, altrettanto facilmente, qualcuno o qualcosa da lì può arrivare. Se manteniamo la metafora delle nazioni, i confini diventano le postazioni di frontiera, le dogane, cioè i punti di contatto.
Il problema allora è capire come sono attrezzati questi punti di contatto; se sono militarizzati per impedire l’ingresso di persone che vengono considerate, almeno potenzialmente, nemiche o se diventano punti d’accoglienze, di mediazione e interazione culturale, di convivenza se non proprio di melting pot. E qui, a mio avviso, sta l’interrogativo principale che ci pone la riflessione sul concetto di confine. Come considero l’altro da me? Mi considero per principio o per paura superiore a lui?
Considero la diversità l’evidenza della mia superiorità? Mi pongo verso di lui come qualcuno da convincere, da persuadere della mia superiorità o mi atteggio verso di lui come persona che cerca di comprendere come egli vede il mondo e perché lo vede in modo così diverso da me (cosa che accade quasi sempre e che non può non accadere). Consapevole che le metafore non vanno prese troppo alla lettera, da persona che se ne è occupata professionalmente, questa domanda si pone anche nella comunicazione umana.
La comunicazione avviene proprio sul confine tra persone, organizzazioni, istituzioni e avviene attraverso una qualche forma di contatto, appunto.
La comunicazione umana tiene insieme la società, costituisce il collante delle sue diverse forme. È il processo di costruzione dei significati, del senso che motiva all’azione. Attenzione però, come verifichiamo quotidianamente, la parola comunicazione è una espressione polisemica, dicono i linguisti, significa troppo. Usata in diversi contesti, viene caricata di tantissimi significati ed è quindi come le vecchie monete dei tempi antichi che, come racconta lo storico Marc Bloch, passando di mano in mano perdevano l’effigie e non si sapeva più cosa valessero.
Ma spesso allora le monete valevano per il peso del minerale di cui erano fatte, cosa che, certo, non avviene per la comunicazione. Ma non infiliamoci in un’altra metafora. E invece, cerchiamo di chiarire cosa si intende in queste righe per comunicazione: appunto, mettiamo dei confini al significato che attribuiamo al concetto di comunicazione.
In queste righe, la comunicazione è considerato un processo composto da selezione, emissione e comprensione dei messaggi. Non c’è comunicazione se il processo non si compie con una qualche forma di comprensione, quindi di attivazione del ricevente, del destinatario del messaggio. Comprensione, attribuzione di un significato, non condivisione, sia chiaro. Ma su questo val la pena tornarci.
Dell’evento comunicativo, quindi, fanno parte sia chi parla sia chi ascolta, emittente e ricevente. E la comunicazione esiste se i ruoli si invertono subito, se la comunicazione diventa un fenomeno circolare e ricorsivo. Non c’è vera comunicazione se non c’è comprensione e reazione. Altrimenti sarebbe un monologo. Parlare, emettere un segnale non è comunicare. Se chi ascolta non reagisce non c’è comunicazione ma caso mai propaganda cioè diffusione di una certezza, di una verità indiscutibile. Per questo il ruolo del ricevente è essenziale e la comunicazione non si esaurisce nell’emissione. La comunicazione umana, sociale, non è un fenomeno meccanico o elettromeccanico; non si trasmette qualcosa di materiale. Non c’è una damigiana piena dalla quale con un tubo posso travasare liquido in una damigiana vuota. È un processo di costruzione di significato, di senso. E colui che ascolta si crea il “suo” significato e questo, quindi, non appartiene – solo – a chi lo ha emesso o pensato. Da qui il ruolo centrale dell’ascolto che va considerato qualcosa di più complesso del feed back della giustamente famosa teoria della comunicazione di Shannon e Weaver applicabile però al campo della trasmissione dei segnali elettrici.
La conoscenza umana è qualcosa di più complesso, è un insieme di processi mentali e abilità che coinvolgono l’acquisizione, l’elaborazione, la conservazione e l’utilizzo delle informazioni. Riguarda come gli individui comprendono il mondo intorno a loro, come interpretano le informazioni provenienti dall’ambiente, come prendono decisioni e come risolvono i problemi. Infatti, due persone anche se vivono lo stesso accadimento, non gli attribuiranno mai lo stesso significato.
Per questo, ad esempio, in una relazione, se la si vuole sviluppare o mantenere, l’atteggiamento non può essere quello di chi vuole convincere, persuadere, ma deve essere quello di chi è disposto a riconoscere pari dignità al punto di vista dell’altro. Insomma, per capire come l’altro vede il mondo bisogna fare la fatica (virtuale) di spostarsi, di cambiare punto di vista, provare persino a dargli ragione, e, caso mai, cercare i possibili punti di reciproco interesse delle due visioni differenti affinché si raggiungano obiettivi reciprocamente accettabili. E per interesse non si intende solo qualcosa di materiale o tangibile. Sempre, ben inteso, che davvero costruire una relazione con il nostro interlocutore sia importante; che ci interessi che egli assuma un determinato comportamento; faccia qualcosa, compri qualcosa o voti qualcuno, ad esempio.
Non a caso nel marketing del nostro tempo, superata la fase della mera reclame, dopo la stagione delle ricerche di mercato, oggi si perfezionano meccanismi sofisticati in grado di interpretare la reazione del ricevente analizzando anche i suoi comportamenti sulla rete internet. Il profiling che sostiene gli algoritmi di cui si straparla, non è altro che il tentativo di comprendere la reazione di chi riceve stimoli e messaggi per trasformare la comunicazione a una via, top down, tipica della propaganda, in qualcosa che si avvicini a una relazione, che prenda in considerazione chi riceve il messaggio, che costruisca fiducia.
Anche il profiling può essere considerato un modo di attrezzare il confine, il punto di contatto, tra due poli della relazione comunicativa.
E i gestori delle piattaforme, i protagonisti della forma attualmente emergente dell’economia di mercato, diventano gli organizzatori del filtro sul confine dei due mondi: chi produce e cerca di vendere e chi vive nell’altro campo, quello degli utilizzatori e dei compratori. Questo ci dice anche che i protagonisti del sistema dell’economia hanno compreso spesso prima dei protagonisti del sistema della politica che una comunicazione efficace non si esaurisce nella diffusione, nel propagare un messaggio, nel fare retweet, ma deve riuscire a costruire una relazione di fiducia tra chi emette il messaggio e chi gli attribuisce il “suo” senso. Certo, anche la propaganda contribuisce alla costruzione di senso, ma non è comunicazione, non implica scambio o una qualche forma di messa in comune. E per questo, secondo me – azzardo – è più effimera, meno solida e duratura sul medio lungo periodo. Come abbiamo detto, che si attivi il processo di comunicazione non significa però che il ricevente attribuisca al messaggio emesso intenzionalmente lo stesso significato dell’emittente.
Abbiamo visto che il processo di comunicazione non esclude fraintendimenti e incomprensioni. Si possono capire fischi per fiaschi. E quindi l’attivazione della comunicazione non implica di per sé consenso. Anzi, il dissenso è uno degli esiti possibili e più probabili di un evento comunicativo.
Per questo, riflettere sui confini e i limiti è importante anche per quella comunicazione che possiamo definire intenzionale, quella che si propone degli scopi, che cerca attraverso un consenso più o meno profondo, di indurre dei comportamenti ed evitare fraintendimenti, incomprensioni, dissenso. Per essere efficace questa comunicazione deve basarsi su messaggi dotati di confini, di contorni, ben definiti. Questa è la condizione della sua consistenza. Ma deve essere una solidità costruita sulla convinzione che abbiamo espresso in precedenza cioè che i confini devono essere punti di contatto attrezzati non tanto al respingimento del pensiero diverso ma alla sua inclusione.
I confini della comunicazione intenzionale, quella che si propone di raggiungere un consenso, sono come i contorni di una immagine e questi debbono essere messi bene a fuoco. Come in una fotografia o in un dipinto. Sempre che l’effetto sfocato o mosso non sia un’intenzione precisa del pittore o del fotografo (o del comunicatore).
In questo caso, delimitare un confine significa essere consapevoli del fatto che un messaggio per essere attrattivo deve contenere elementi che lo distinguono e lo rendono riconoscibile, unico, inatteso, nuovo. Non a caso nella lingua inglese la notizia è new. E dall’italiano medievale ci rimane ancora oggi l’espressione della “lieta novella”. L’informazione che portava l’arcangelo era definita una novella.
Più si è in grado di delimitare le caratteristiche che connotano il messaggio, la proposta, quello che viene offerto alla relazione con gli altri e con maggiore probabilità le persone alle quali ci si rivolge potranno decidere se ingaggiarsi o meno in una relazione comunicativa. Decidere se gli conviene accogliere quello stimolo nella loro visione delle cose. E questa accettazione costruisce la fiducia, l’affidabilità. Per questo credo – forzando un po’ – che l’obiettivo della comunicazione intenzionale sia quello di costruire una relazione di fiducia piuttosto che di persuadere. È necessario perciò un confine forte che delimita e permette di costruire e sviluppare un’identità cioè qualcosa che distingue e fa riconoscere dagli altri.
Ma questo contatto deve essere concepito come luogo di relazioni di fiducia. Un ponte non una muraglia invalicabile.
E questo credo valga per i singoli individui e per tutte le organizzazioni umane, da quelle economiche o culturali, a quelle più grandi gli stati passando ovviamente per i partiti politici. La forza di un confine sta quindi soprattutto nella capacità di chi sta all’interno di quel confine di assorbire gli stimoli che provengono dall’esterno e metabolizzarli utilizzando la propria cultura.
La forza di includere piuttosto che di escludere. Facile a dirsi molto più difficile a realizzarsi.
Oggi abbiamo una sola certezza: questa evoluzione non potrà che essere conflittuale.
Alla fine, guardando quanto abbiamo vissuto, è molto probabile che si affermerà la cultura che avrà più capacità adattive, ma proprio rivolgendoci al passato non possiamo che dare ragione a quel grande filosofo che paragonò la storia dell’umanità al banco del macellaio.