Un giorno di qualche anno fa ho fatto una scoperta: Colette era una nuotatrice. Dal momento che il nuoto da sempre occupa una parte preponderante nella mia vita, e a volte cedo alla tentazione di dividere il mondo tra nuotatori e non nuotatori, immediatamente sono andata a caccia di ogni dettaglio a questo riguardo.
Le biografie (le ho lette quasi tutte) erano prodighe, e subito ho scoperto il luogo fatidico delle nuotate di Colette, in Bretagna, a Saint Coulomb, non lontana da Saint Malo: la bella casa di Rozven, dove a partire dal 1920 Colette per cinque anni ospitò il figliastro Bertrand, e lo iniziò al nuoto, alla letteratura, all’amore. A volte certe coincidenze o capricci del destino mi guidano: mio padre è nato nel 1920, e gli anni Venti mi sono sempre piaciuti per la gioia di vivere e la libertà ritrovata dopo la guerra, la musica e molto altro. Ho cominciato a pensare che avrei potuto prima di tutto ‘vedere’ quelle lezioni marine, dato che il nuoto l’ho praticato e insegnato, e proprio per questo avrei potuto concedermi il lusso di immaginarle e raccontarle. Ancora ignoravo che il mio libro non ancora nato mi avrebbe aperto la strada alla scrittura, a una sorta di nicchia acquatica della letteratura, che avrei poi coltivato.
Per prima cosa ho letto ampiamente l’opera di Colette che non conoscevo. E, a parte la serie delle Claudine, ho amato soprattutto Sido, il miglior libro nella storia delle letterature dedicato a una madre, Il puro e l’impuro, La nascita del giorno. Entravo in Colette per gradi, cominciando a ‘sentirla’, a conoscerla.
Non ha lasciato diari (genere che prediligo e divoro) ma lettere sì, e in ogni suo racconto, in ogni libro, emergeva dalle pagine potente, volitiva, sicura di sé ma lambita insieme da lievi malinconie pensose. Cominciava a piacermi. Ho cercato immagini: volevo guardare il suo volto, gli occhi da cui carpire ogni segreto della sua interiorità, del corpo; le fattezze del giovane Bertrand e degli amici che era solita invitare in Bretagna durante l’estate, un piccolo gruppo di artisti, una comunità di persone abituate a ‘pensare’.
Un librone con testi e illustrazioni è stato determinante: Colette intime, autori Gérard Bonad e Michel Remy-Bieth, edizioni Phébus. Lo feci arrivare dalla Francia: fu la chiave, l’illuminazione che mi diede lo scatto decisivo per iniziare la mia avventura colettiana.
Che cosa mancava ancora? Andare in Bretagna, vedere coi miei occhi la casa, capire il giro del sole e della luce, nuotare nella baia de La Touesse, ‘sentire’ l’acqua con le mie mani, il corpo intero, assaporare le maree, guardare i colori, annusare l’aria, osservare gli animali, gabbiani e cormorani, ascoltare ogni rumore. Usare i cinque sensi come Colette insegnava a Bertrand.
Partii nell’agosto del 2004 e trascorsi due settimane laggiù. Cercai di varcare il cancello della villa, ma nonostante mostrassi una foto di ciò che era ai tempi di Colette, e dicessi che stavo scrivendo un racconto, non mi fu permesso avanzare e vederla da vicino.
Mi accontentavo di guardarla dalla baia, mentre ero in acqua. Nuotare nello stesso mare, osservare i contorni e i confini di quel proscenio, percorrere il sentiero sabbioso che porta alle dune, tutto amplificava la mia emozione. Nuotavo con la immaginazione di Colette, aspettavo l’arrivo esaltante della marea, entravo nelle sue sensazioni, guardavo i cieli ogni mattina diversi, aspettavo la pioggia in acqua.
Feci qualche gita nei dintorni, soprattutto a Mont Saint Michel, salii in alto sul cono di sentieri che allora si poteva ammirare ancora del tutto galleggiante e distaccato dalla costa in piena marea, nella magia di un isolotto misterioso. Mi commossi davanti alla semplice lapide di granito, la tomba di Chateubriand, che si raggiunge solo quando le acque si ritirano e lasciano passare, leggendo l’epigrafe: “Un grande scrittore francese ha voluto riposare qui per non ascoltare che il mare e in vento. Passante, rispetta la sua ultima volontà”.
In un quadernetto tenevo nota di ogni particolare e delle vibrazioni interne che ogni sguardo mi ispirava; scattavo fotografie e le guardavo lungamente perché mi parlassero.
E le parole cominciavano ad arrivarmi. Stava nascendo la ‘mia’ Colette, ma il lavoro di scrittura, una volta tornata a casa, non è stato poi tanto facile, ha richiesto cinque anni. Soprattutto la fase in levare: volevo togliere, togliere, togliere tutto il superfluo, togliere alla storia ogni pruderie, raccontare con sobrietà ogni episodio e lasciare che i personaggi mi guidassero quasi da soli.
Ho ripulito il testo da scorie inutili e l’ho levigato come fa il mare con un osso di seppia che alla fine resta liscio come seta. Quel che è certo, è che Colette è diventata compagnia piacevole di letture che di tanto in tanto riprendo.
Non ho mai smesso e non smetterò di ascoltarla, fintanto che non avrò carpito il senso del suo passaggio sulla terra e il significato profondo di ciò che ha lasciato in eredità a noi lettori.