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uaderni de La Scaletta

La memoria è più di un sussurro della polvere…

Mediterraneum

Il doppio viaggio oltre confine del telero

Carlo Levi arrivò in Lucania mandato al confino. Riuscì a trasformare il confino in un superamento del confine. Quale confine? Il confine, anzi uno dei tanti confini interni, profondi anche se invisibili alle carte geografiche, che hanno storicamente contraddistinto l’Italia. Non aiutati dalle modalità con cui fu raggiunta l’Unificazione e rimasti irrisolti dai Governi liberali e dal Fascismo, la nuova età repubblicana se li ritrovò davanti come pesante lascito.
La vicenda di Levi è diventata il simbolo di un’Italia ancora sconosciuta a se stessa ma desiderosa e capace di cercare il contatto tra le sue parti diverse, e non solo con strumenti intellettuali e scientifici (del diritto, dell’economia, della sociologia, della medicina, etc.), ma anche con interesse e afflato umano. Levi mise in collegamento due aree del Paese sino a quel momento rimaste lontanissime. Entrambe con le ferite dalla Guerra ma, da un lato, il Piemonte cavouriano ed einaudiano, con una solidata classe borghese delle professioni e dei mestieri espressione anche dell’”intellighenzia”, dotato di infrastrutture (ferrovie, canali navigabili e invasi per l’energia elettrica), già avviato all’industrializzazione, collegato con il resto d’Europa; dall’altro, la Lucania, una delle aree della penisola rimaste più chiuse e isolate, un vero e proprio sopravvissuto di mondo arcaico agricolo-pastorale, nel contempo arretrato ma scrigno di tesori per i vari Frederic Friedmann, Henri Cartier-Bresson, Fosco Maraini, David Seymour, Edward Christie Banfield, Ernesto De Martino, Adriano Olivetti e più tardi PP Pasolini. Quasi i due opposti di un Paese da tenere assieme.
Sull’esperienza di Levi, sulle amicizie che ne scaturirono con Scotellaro, Guerricchio, Annona, Mazzarone, Albino e Leonardo Sacco, si è scritto tanto, da più prospettive, e qui non ci si ritorna. Si vuole invece richiamare la memoria su un aspetto minore, meno noto se non addirittura rimosso dalla memoria collettiva, che però di quell’esperienza leviana ha tutto il senso e il sapore. La chiude e, chiudendola, la completa e la consegna a chiunque vi si voglia accostare anche senza essere uno specialista o un addetto ai lavori.
La testimonianza di quel confino, diventato un viaggio di presa di coscienza tra ospiti, fu affidata a due opere: il romanzo Cristo si è fermato a Eboli e il grande telero Italia ’61.
Il primo fu scritto tra il 1943 e il 1944, quando i ricordi erano ancora vivi e aiutando la memoria con i tanti quadri su cui Carlo aveva impresso luoghi, scene e volti. Il telero arrivò dopo, nel 1960, quando Mario Soldati chiese all’amico Levi, per conto del Comitato organizzatore delle celebrazioni per il Centenario dell’Unità, di raffigurare la sua Lucania per una delle pareti del padiglione regionale all’interno della Mostra delle Regioni. Il telero è il Cristo trasposto nel linguaggio immediato e universale della pittura.
Per realizzarlo Levi volle tornare in Lucania a ravvivare ricordi ed emozioni, accompagnato dal cosentino Mario Carbone che in quell’occasione realizzò la meravigliosa galleria di fotografie che aiutarono l’ispirazione e che valgono anch’esse una traduzione del Cristo per immagini. Compaiono tra l’altro gli ultimi Sassi dei nostri nonni, con vita vissuta nei fondaci e nei vicinati prima del trasferimento delle famiglie nei nuovi quartieri sul piano.
La Mostra delle Regioni era parte della grande Esposizione di Torino 1961. Un evento molto importante per vari motivi. Aveva la parte internazionale dedicata a due temi che allora, in pieno boom economico, con ingenti flussi di emigrazione dalle campagne verso le città e i siti industriali che in Italia interessarono soprattutto il triangolo TO-GE-MI, venivano avvertiti con particolare urgenza: la trasformazione del lavoro, l’innovazione tecnologica e la relazione tra i due fenomeni (si vedano i corti su https://www.italia61.org/). Sono grandi sfide da allora rimaste sempre vive, ai nostri giorni allargate su scala globale, con al centro i cambiamenti post-industriali e addirittura post-terziario, la rivoluzione dell’AI e della robotica, la rete e Internet-of-Things. La parte nazionale della Esposizione era altrettanto attesa. Si trattava della prima volta, in era repubblicana, che le Regioni – previste dalla Costituzione ma non ancora formalmente attuate – partecipavano a un evento congiunto di quella risonanza con l’intento di presentarsi le une alle altre prima ancora che ai visitatori internazionali.
Si voleva andare oltre l’Esposizione del 1911 per il Cinquantenario dell’Unità, organizzata dall’Italia liberale a Torino, Firenze e Roma, questa volta puntando a un maggior coinvolgimento del Mezzogiorno. Si voleva buttare nel dimenticatoio il capitolo ingombrante dell’EUR, dimostrando le capacità organizzative e progettuali della nuova Italia rientrata nel consesso delle Nazioni. Come quasi sempre accade per grandi eventi tanto attesi (si pensi al recente Expo di Milano),non mancarono ombre e critiche: dai costi elevati alle strutture anche molto belle ma di cui non era chiara la destinazione finale passata l’Esposizione, alla superficialità con cui furono allestiti i padiglioni delle Regioni disposti su una pianta a forma di stivale e in alcuni casi poco più di stand di promozione turistica, all’assenza di chiari messaggi conclusivi da raccogliere soprattutto per le tematiche interne. Le strutture di Italia ’61 caddero presto di disuso, sopraffatte da vegetazione e ruggine. Le potenzialità della grande area a sud-est di Torino su cui erano state realizzate sono rimaste inespresse sino a pochi anni fa, quando il Comune ha avviato un percorso di recupero a partire dai pezzi più pregiati: il grande Palazzo del Lavoro dei fratelli Nervi, il Palazzo a Vela dei fratelli Rigotti dove allora trovo posto la Mostra dell’attività della Cassa per il Mezzogiorno, la monorotaia che univa al Parco del Valentino, l’ovovia per il collegamento con la collina di Cavoretto.
Le esposizioni delle Regioni passarono impalpabili, senza lasciare segni di nota salvo, come ebbe a sottolineare Pier Carlo Santini critico d’arte e primo presidente della Fondazione “Ragghianti”, per l’area della Lucania “[…] dove un grandissimo pannello […] domina l’ambiente: a prescindere dal merito propriamente pittorico, questo fervido e appassionato racconto della vita, del dolore, del lavoro e della miseria di un mondo, sullo sfondo dell’avvolgente paesaggio lucano, […] non può non suscitare reazioni” (pag. 4 del Corriere Meridionale del 16 luglio 1961). Una medesima osservazione giunse dal senese Cesare Brandi, critico e storico dell’arte.
Nel caso della Lucania, Italia ’61 raccontava davvero al Paese un pezzo di se stesso e l’allestimento era intrinsecamente coerente con le poche parole riportate sul pamphlet di presentazione della Mostra, che per la Lucania recitava: “[…] Anche per questo mondo mirabilmente povero e rassegnato si sono in questi anni aperte nuove possibilità: le piane, irrigate, sono ritornate alla feracità che già rese celebri Metaponto e Sibari, e sotto le argille – le più difficili terre agricole d’Italia – si sono ritrovate grandi ricchezze energetiche”. Era l’umanità che aveva incontrato Levi, incapace per secoli di uscire dalle durezze e delle privazioni e che, nella nuova Italia liberata, riusciva a trasformare la forza di sopportazione e sacrificio in energia di sviluppo, la fame di pane in fame di futuro, le radici primitive in fondazioni. L’utopia leviana che provava a realizzarsi.
Eppure, anche sul telero di Levi sembrava destino che, finite le luci della ribalta, calasse mestamente il sipario. L’organizzazione dell’Esposizione tentò di venderlo per ridurre il disavanzo con cui si chiuse la manifestazione. Per facilitare il collocamento sul mercato, si arrivò a ipotizzare di tagliarlo in più tele di dimensioni minori. Ci si mise di mezzo anche un Prefetto, che giudicava l’opera offensiva della dignità del Sud. Nel dubbio su chi ricadesse la competenza a decidere – se il Comune di Torino, lo Stato, il Ministero degli Interni, quello della Pubblica Istruzione, o altri – il telero fu acquistato dallo Stato, impacchettato e messo nei depositi del Museo Civico. Sarebbe stata una sconfitta per tutti: uno dei pezzi più iconici e autentici dell’Esposizione dimenticato in deposito, dopo un rosso in bilancio, conflitti di attribuzione tra Amministrazioni e veti benpensanti in odore di abuso di ufficio. La nuova Italia mostrava già le sue debolezze e stava per mettere in cantina se stessa.
Per fortuna non accadde e quel filo tra Piemonte e Lucania non è stato perso. Si mosse la società civile, quella lucana con cui Levi era entrato in contatto e di cui aveva raccontato e dipinto gli stenti, le meschinità, ma anche le potenzialità di riscatto. Il Piemonte di Levi aveva chiamato, la Lucania provava a emulare. Se la memoria storica e il vissuto comune sono elementi importanti nella (ri)edificazione di una comunità e di un Paese, dimenticare il telero avrebbe impedito di conoscere tutta l’esperienza leviana, che invece merita di essere raccontata e di cui il recupero del telero è parte integrante.
Furono ripetutamente sensibilizzati esponenti politici locali e nazionali, studiate soluzioni idonee per accogliere l’opera in Lucania, ci si rivolse al mondo delle arti e della cultura chiedendo di firmare appelli. Si delinearono più possibilità, tra cui la sala del futuro Centro visitatori del Parco di Gallipoli Cognato (vedrà la luce nel 1997), la foresteria dell’Ostello per la Gioventù che era un altro progetto in cantiere (ci si riproverà molti anni dopo con una succursale del Collegio del Mondo Unito che però non sarà realizzata), palazzi storici o antiche dimore nei Sassi.
Ci sono le lettere aperte del Prof. Giovanni Caserta e del pittore e artista Ginetto Guerricchio, brevi ma appassionate. Il primo, sull’onda della sua passione per la Storia, maggiormente interessato alla scelta di Gallipoli Cognato, “[…] la foresta che sorge di fronte Tricarico e che spesso Scotellaro contemplava dall’alto del suo paese, [dove…] le mura megalitiche dell’antichissima città greco-lucana di Monte Croccia [meglio fanno cogliere] il senso dell’utopia leviana […]”. Il secondo, amico di Levi e che con lui condivideva la passione artistica, più sensibile alla scelta di tenere il telero a Matera, “[come testimonianza] di autentica pittura realista e popolare, […] dando così inizio alla istituzione di una galleria d’arte moderna in città”.
Gutta cavat lapidem! Gli sforzi furono premiati e il telero fa mostra di sé in una delle sale più grandi di Palazzo Lanfranchi. Ci sono stato più e più volte, da ragazzino e da adulto, ci ho portato amici e colleghi, ma confesso ho ignorato sino all’ultimo le difficoltà del secondo viaggio, quello di ritorno in Lucania. Fu un viaggio oltre confine anche il secondo, a cominciare dal confine dell’indifferenza civile e della sordità delle Istituzioni. Non so dire come mai a casa non se ne sia mai parlato, se per riserbo, pudore, rispetto per una conquista della comunità, o un certo senso di inadeguatezza al cospetto di personaggi di levatura e di una vicenda – l’andata e il ritorno del telero – dai significati profondi e metaforici. Forse lo stesso senso di inadeguatezza che adesso sto provando io costringendo i fatti in queste poche righe.

Ho cominciato a scavare tra le carte in cantina dopo aver letto le parole di Raffaello De Ruggieri, tra i fondatori de “La Scaletta” ma, soprattutto, Sindaco di Matera nel 2019: “[…] Dinanzi alla sua scomparsa mi corre l’obbligo di ricordare non solo quanto fatto dal 1990 nelle attività della sua creatura, la Fondazione Sassi, ma soprattutto il suo impegno per portare a Matera il telero di Carlo Levi. […] Finita la grande kermesse torinese, l’opera rimase abbandonata e ignorata. Con caparbia opera certosina, Mario Salerno individuò il deposito del telero, ottenne le dovute autorizzazioni e in una giornata straordinaria e memorabile consegnò alla città di Matera questo inestimabile bene culturale”. Correva il 12 maggio 1976, io non avevo ancora sei anni e Levi già da alcuni mesi riposava, per sua ultima volontà, nel piccolo cimitero di Aliano, anche lui per sempre in terra di Lucania.
I posti sono di grande suggestione e affacciandosi dalle strade del paese verso i calanchi ritornano le parole del Cristo: “Sulla mia terrazza il cielo era immenso, pieno di nubi mutevoli: mi pareva di essere sul tetto del mondo, o sulla tolda di una nave, ancorata su un mare pietrificato. […] Paesi lontanissimi appaiono da ogni parte, come vele sperdute su questo mare”. Qualche tempo fa, durante una vacanza a Sud, ci ho portato Luisa, la mia compagna, piemontese con origini a Mursecco, alta Val Tanaro, Piemonte.

Nicola C. Salerno
(Economista presso l’Ufficio parlamentare di bilancio)
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